L’impatto delle bevande alcoliche sulla salute è un grande tema multidisciplinare che riguarda in primo luogo la medicina, ma tocca anche le scienze umane e sociali. La valenza farmacologica dell’alcol è nota fin dall’antichità nel suo doppio significato di sostanza intossicante e di apportatore (problematico) di benessere. La natura essenzialmente ambigua dell’intossicazione alcolica è da sempre al centro della riflessione sull’abuso e la dipendenza. In una chiave antropologica, l’abuso si può intendere come momento incidentale e limitato, giustificato da circostanze eccezionali. Molti rituali religiosi e identitari del gruppo affidano all’ebrezza “regolata” la funzione di gestire gli aspetti oscuri della psicologia umana e di dare così un senso alla perdita di controllo, sia individuale sia collettiva. Per contro, la progressiva colonizzazione razionale dell’organizzazione sociale evidenzia l’imperativo di generare norme capaci di restringere la valenza “dionisiaca” del bere, riconducendo il piacere delle bevande alcoliche nel novero di comportamenti accettabili e non distruttivi.

In epoca grosso modo parallela alla rivoluzione industriale, in Occidente, la caratterizzazione problematica delle bevande alcoliche si fonde con la nascita della medicina scientifica e, in parte, della medicina sociale, nota anche come “igiene pubblica”. La creazione di un dominio specializzato con cui presidiare il tema delle droghe e delle dipendenze sfocia nei programmi di prevenzione e cura per le dipendenze e trova sul terreno delle sindromi alcol-relate un terreno privilegiato di sviluppo di un sapere specifico, non di rado associato ad ideologie del controllo sociale attraverso il controllo della salute. La stagione del positivismo e la nascita della nozione di malattia mentale, accanto alle disfunzioni organiche, elabora intorno alla nozioni di “alcolismo” e “alcolista” un sistema organico di norme e prescrizioni che hanno contribuito a definire in termini spesso problematici la nozione di malattia da alcol. In un certo senso, anche le definizioni cliniche delle sindromi da alcol sono state guidate e correntemente interpretate dalla cultura di riferimento delle società e dei legislatori.

In tempi a noi più vicini la medicina scientifica, l’epidemiologia e, progressivamente, la cosiddetta Public Health hanno reinstallato il tema in una nuova prospettiva centrata intorno alle nozioni di rischio e ratio tra rischio e beneficio. In modo molto semplificato, la questione oggi verte intorno a tre temi distinti ma anche profondamente interconnessi:

  1. l’approfondimento della nozione del consumo di bevande alcoliche in relazione all’insorgenza di malattia, sia in danno d’organo sia di natura mentale; in particolare, se a livello di incidenza di popolazione abbia senso distinguere tra uso e abuso dell’alcol;
  2. l’approfondimento dell’eventuale beneficio (o assenza di danno) del consumo di alcolici a basse dosi, almeno relativamente all’impatto sulla salute cardio-vascolare;
  3. l’approfondimento della relazione tra consumi di alcolici, quantità e fattori concomitanti che aiutino a comprendere la relazione tra alcol e cancro, soprattutto per alcuni tipi di tumori.

L’interconnessione di questi grandi cantieri tocca le discipline cliniche tradizionali, votate a trovare spiegazioni meccanicistiche dei fattori che favoriscono o ritardano l’insorgenza di malattia, l’epidemiologia che studia a livello di popolazione l’associazione tra fattori di esposizione ed esito più o meno probabile di malattia, e le neuroscienze, che cercano di studiare a livello di sistema nervoso centrale i meccanismi che presiedono allo sviluppo di comportamenti che possono andare o meno nella direzione dell’instaurazione di una dipendenza. In termini di traduzione di queste imprese scientifiche a livello di comunicazione pubblica rivolta alla comunità ed ai consumatori, la questione chiave è quella del rischio associato al bere. Dalla comprensione di quest’ultima ci si attende l’indicazione di comportamento e, in particolare, la possibilità o meno di bere senza preoccupazioni per la salute.

Per dirimere le complessità di questa questione, la nozione di rischio è quella più accreditata: si misura sulla base di studi statistici se e quanto il bere a diverse dosi e quantità incide sul danno o meno. Naturalmente, tali indicazioni risentono di molti fattori concomitanti: il sesso, l’età, la condizione socio-economica, la frequenza e lo stile con cui si beve, il fatto di essere un ex-bevitore o meno e altri. Anche le diverse popolazioni a livello mondiale hanno profili genetici differenziati, che modulano in modo differente la capacità di resistenza al contenuto alcolico delle bevande e ai tempi e modi dello smaltimento. Le popolazioni asiatiche, ad esempio, hanno una maggiore suscettibilità agli effetti negativi della intossicazione da alcol già a piccole dosi. In ogni caso, le indagini epidemiologiche sono l’unico modo che abbiamo, eticamente compatibile, per testare su grandi numeri ipotesi controllate.

Allo stato attuale l’epidemiologia prevalente, sulla base dei migliori studi ottenibili (che non vuol dire si intenda studi “perfetti” e non correggibili in futuro), afferma che non vi sono limiti al di sotto del quale il consumo di alcolici non sia a rischio. In altre parole, l’unico comportamento sicuro, nel senso di compatibile con la tutela della salute, è il non bere (zero levels). Tale conclusione, che è stata rapidamente adottata come golden standard per le politiche sanitarie di prevenzione alcol-relata e di comunicazione al grande pubblico, non è del tutto convincente.

Il suo limite consiste nella sistematica svalutazione di un fenomeno noto da circa un secolo, vale a dire la protezione cardio-vascolare associata al bere a basse dosi (moderato). La ricerca empirica e anche molta ricerca clinica ha dimostrato che i bevitori moderati regolari presentano un profilo di salute mediamente migliore degli astemi, mentre tutti colori che bevono in eccesso hanno rapidamente un peggioramento del proprio esito di salute all’aumentare delle dosi ingerite. Questo risultato è noto come paradosso della curva a J: la ‘J’ si riferisce alla forma grafica della funzione che associa l’argomento “consumi” con il valore di “esito di mortalità”, grafico che parte in corrispondenza di un certo valore, quello del non consumo (la punta della J in basso a sinistra), per poi scendere a formare la concavità in corrispondenza dei consumi a basse dosi (consumo moderato) e poi impennarsi rapidamente verso destra (la maggiore mortalità in concomitanza con consumi eccedenti). L’andamento a J descrive appunto la relazione in corrispondenza dei punti di consumo. La forma della curva si ha in quei fenomeni (non solo biologici) che hanno un effetto soglia: al di sopra di un certo valore la probabilità negativa aumenta mentre al di sotto, entro un certo range ben delimitato, la probabilità di malattia diminuisce. Dove ciò avviene si parla di effetto protettivo associato alla causa, in questo caso di effetto protettivo per la salute CV dei consumi moderati di alcol.

La curva a J è oggetto di dibattito infuocato tra gli addetti ai lavori. C’è chi vi si oppone, sostenendo che essa deriva da errori di trattamento statistico degli ex bevitori nelle popolazioni analizzate (confondenti), e chi afferma che il beneficio relativo del consumo moderato sulle malattie cardiache è incomparabile rispetto al danno potenziale in termini di tumori associato alle stesse dosi. In ogni caso, la disputa dipende anche dal tipo e dalla natura delle sorveglianze epidemiologiche adottate, spesso effettuate su popolazioni sbilanciate verso un consumo e uno stile del bere segnato dal binge drinking, oppure senza un‘adeguata attenzione ai modificatori che aggravano o attenuano l’effetto dei consumi sulla salute. Manca, ad esempio, uno studio sistematico che riporti dati attendibili sullo stile di consumo mediterraneo, in quanto significativamente diverso dalla modalità di consumo anglo-sassone che sembra dominante nelle sorveglianze utilizzate per la stima del rischio alcol-correlato.

La relazione tra alcol e cancro è considerata dalla comunità scientifica solida ed accertata, almeno per sei tipi di tumori specifici: faringe, laringe, esofago, fegato, colon-retto e mammella. Lo IARC, la principale agenzia internazionale responsabile di accertare la carcinogenicità di vari fattori di esposizione, ha rubricato l’alcol tra i cancerogeni di livello 1, sicuramente patogeni per la specie umana, fin dal 1988. Benché si tratti di associazione sicura e non messa in discussione, resta vero che l’eziologia dei tumori è per definizione complessa e multifattoriale. Si discute parecchio su quali siano i fattori concomitanti che spiegano l’effetto inducente, non essendo spesso possibile sui grandi numeri distinguere la componente alcol-attribuibile da altri fattori clinici o comportamentali. In particolare, l’associazione con il tumore del seno sembra essere rilevabile già a consumi moderati, sia pure continui.

L’apporto degli studi neuroscientifici alla comprensione degli aspetti comportamentali, di assuefazione e di vera e propria dipendenza dalla sostanza, appare come uno dei campi più promettenti. Un campo rilevante di studio riguarda l’effetto di interazione tra l’alcol (ma anche altre sostanze) e il modellamento delle connessioni nervose e cerebrali in età adolescenziale. Un effetto oramai compreso di questa interferenza conduce alla conclusione che l’esposizione precoce all’alcol blocca, e per così dire “congela”, l’individuo nella fase di sviluppo per quanto riguarda la zona del cervello preposta alla risposta istintiva. In questo modo si ritarda la transizione verso lo sviluppo delle connessioni che presiedono alle capacità razionali e alla decisione informata (rinvenibile nelle strutture della corteccia pre-frontale). Si comprende facilmente come questi meccanismi siano decisivi in fase precoce, e come quindi la raccomandazione di bere il meno possibile o di non bere sotto l’età minima legale debbano essere stringenti.

Molte altre sono le questioni di interesse scientifico su alcol e salute. A chi voglia avvicinarsi a questi temi suggeriamo di consultare gli indici dell’archivio, dove vi sono numerose segnalazioni su articoli, contributi, interviste e altro attinenti a queste questioni. Per una prima presa di contatto con le tematiche, suggeriamo comunque alcune letture. Per chi voglia avere un’infarinatura generale sugli aspetti storici e storico-scientifici della presa in carico del concetto di alcol come malattia e del suo sviluppo nell’epidemiologia dell’ultimo secolo può leggere M. Contel: “Epidemiologia alcol-correlata”, in: In sostanza, Manuale delle dipendenze patologiche (a cura di Fabio Lugoboni e Lorenzo Zamboni), collegandosi all‘indirizzo web: https://play.google.com/store/books/details?id=5xJhDwAAQBAJ&pli=1.

L’importanza delle revisioni sistematiche e degli studi epidemiologici di popolazione e dei loro esiti si può valutare analizzando gli studi dedicati all’alcol dal GBD Alcohol Collaborators, l’esame del carico di mortalità e malattia (burden) in dipendenza di diverse esposizioni, condotto dal gruppo di lavoro Global Burden of Diseases per conto dell’OMS in 185 paesi. Gli studi sono pubblicati dalla rivista The Lancet: il primo, nel 2018, riporta curve che negano l’esistenza della curva a J e quindi dichiarerebbero l’inesistenza del bere moderato, il secondo del 2022 corregge parzialmente le conclusioni del precedente reintroducendo attendibilità alle basse dosi.

Per la curva a J, i suoi antecedenti storici e gli sviluppi recenti della discussione scientifica e le sue ricadute in termini di policy, ci si può riferire al ciclo in PODCAST dell’Osservatorio curato da M. Contel, intitolato “All’origine della curva a J”, in sei puntate, ascoltabile a: https://alcoholpills.substack.com/podcast.