EPISODIO N.1 – ALL’ORIGINE DELLA “CURVA A J”: LE OSSERVAZIONI DI RAYMOND PEARL SUL BERE A BASSE DOSI

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Che bere possa fare male e noto. Meglio: che bere molto possa fare male è quasi una banalità. In realtà la risposta varia molto da bevitore a bevitore: per alcuni un bicchiere è già troppo; per altri, si dice è questione di abitudine o, come si diceva una volta, “di saper reggere l’alcol”. Come in tutte le esperienze che si basano su un effetto soglia, l’esito di certi comportamenti dipende alla fine dalla capacità di gestire la situazione in prossimità della soglia, in particolare della soglia di rischio che più o meno vuol dire sapersi fermare in tempo. Chiedetelo a quel ciclista che in discesa ha calcolato male la velocità di ingresso in curva…o a quel subacqueo che ha regolato male i tempi di compensazione in fase di risalita…
Facile a dirsi, forse, non così facile a farsi. Del resto è nota l’auto-indulgenza di chi, abituato a giocare con il rischio, rintuzza chi gli obietta con scetticismo l’eccesso di fiducia nella ricerca del limite, con una frase del tipo: “beh é questione di esperienza e di abitudine, ed io mi fido della mia esperienza e so quando fermarmi”.
In materia di bevande alcoliche non è troppo diverso. L’istruzione implicita che chi beve pensa di conoscere e di applicare non sempre è ben riposta in un fondamento scientifico: l’esperienza praticata e associata alla consuetudine e magari ereditata dai proverbi degli antichi non basta. E in un‘epoca di estrema attenzione alle valutazioni errate o come è di moda dire adesso, ai bias cognitivi, è utile fare chiarezza quali siano i determinanti di rischio di alcuni comportamenti. Chiediamoci dunque: bere fa sempre male a qualsiasi dose? O esiste un effetto soglia come disi diceva all’inizio? E se c’è un effetto soglia questo è conoscibile? Ancora: l’esistenza della soglia ci mette nelle condizioni di agire in modo da cancellare o ridurre il danno potenziale? Possiamo, in altre parole gestire attivamente la riduzione di un rischio o addirittura “addomesticarlo” traendone dei benefici?
Per capirlo in rapporto alla bevande alcoliche è utile tracciare una storia che ci riporta a circa un secolo addietro ai lavori dello statistico e biometrico americano Raymond Pearl e alle origini dell’epidemiologia scientifica sul consumo di bevande alcoliche.


Se avete in mente le stampe ottocentesche che descrivono le grandi città dell’Europa e degli Stati Uniti, se avete familiarità con certi ambienti degradati descritti nei romanzi di Dickens o se vi siete immersi in certe atmosfere evocate dai Fiori del Male di Charles Baudelaire o se semplicemente avete negli occhi un classico western, converrete come nella fioritura della civiltà occidentale l’uso di alcolici segni i processi di civilizzazione, sia parte integrante del paesaggio sociale e identifichi, nella figura dell’ubriaco, un prezzo doloroso pagato dalla società all’ideale di crescita e progresso. Tuttavia il venire meno della società basata esclusivamente sull’agricoltura, l’organizzazione su base scientifica del lavoro salariato, la nascita di grandi agglomerati urbani e periferie degradate alle porte della città portano alla concentrazione di grandi masse, necessarie alla produzione industriale nascente. Grandi masse indispensabili al lavoro che però fanno anche paura. Da un lato bisogna in qualche modo lenire la durezza del lavoro: l’alcol come grande anestetico di massa; ma dall’altra si deve tutelare la riproduzione di una forza lavoro efficiente, capace di concentrarsi per il tempo necessario a svolgere mansioni magari ripetitive ma anche coordinate e sincronizzate come ci mostra magistralmente la famosa sequenza della catena di montaggio di Tempi moderni di Charlie Chaplin.
Non solo il lavoro salariato ma anche le organizzazioni statuali che nei grandi paesi formano un modo unico di inquadramento organizzato, la grande burocrazia statale e l’esercito esigono un capitale umano disciplinato, schierato in precisi dispositivi in cui l’esecuzione dei compiti è descritta da un ordine razionale e scientificamente dimensionato per ottenere certi risultati.
In questo contesto la sobrietà viene concepita come un bene sociale da tutelare: senza sobrietà non c’è responsabilità e quindi non c’è libertà. In uno dei capolavori del tardo cinema western, L’uomo che uccise Liberty Valance di John Ford, nel villaggio di provincia sulla frontiera si deve andare al voto. E il saloon è l’unico locale pubblico adatto alla bisogna. In pochi istanti compare la scritta: “IL BAR È CHIUSO”. Ma appena le operazioni di voto sono concluse, il cartello sparisce è giù grandi libagioni…
Ma poniamoci alcune domande: davvero basta un goccio per essere dannati? Il bere è sempre correlato con la dipendenza e con il disfacimento degli legami sociali? La sobrietà è sempre un ideale da perseguire? Può esservi consumo alcolico moderato, conciliabile con i doveri sociali e professionali, associato alla distrazione positiva, e perfino alla salute e al benessere?
Nei dati scientifici oggi cerchiamo una parte almeno delle risposte a queste domande. La disciplina più di altre deputate a fornire le informazioni sul grado di rischio o di beneficio di una sostanza è l’epidemiologia, cioè la disciplina che studia l’esposizione dell’organismo umano a fattori di rischio utilizzando l’unità popolazione come ambito di stima delle cause e degli effetti. L’epidemiologia lavora con grandi numeri e con tecniche che minimizzano il rumore e altri fattori di interferenza nella misura.
In materia di alcol il senso comune ha sempre riconosciuto la connessione tra eccesso del bere e disturbo di salute. Sia nelle forme organiche (ictus, infarto, cirrosi e danni al fegato), sia nelle manifestazioni comportamentali e psichiatriche (fino al delirium tremens). Ma è solo con i primi tentativi di studiare la materia con approcci epidemiologici che si è provato a capire meglio la relazione tra il bere
e gli esiti di malattia. Ed è in questa connessione che possiamo fare la conoscenza del medico di Boston Raymond Pearl. Raymond Pearl, alla metà degli anni 20 del secolo scorso sviluppa le prime indagine longitudinali su popolazioni bevitrici. Le prime indagine indagavano un campione abbastanza ristretto delle città di Boston in cui risiedeva. Egli cominciò chiedendo alle persone le quantità di alcol ingerito. Ma, mossa non scontata, decise di includere nella statistica gli astemi, (oggi diremmo come gruppo di controllo). Come variabile indipendente, Pearl provò a stimare l’esito di mortalità in relazione ai consumi di alcolici entro i 60 anni di età. Analizzando nel tempo diverse categorie di bevitori/bevitrici (M: 3086, F: 2164) egli constatò che se, come ci si poteva aspettare, il tasso di mortalità è maggiore tra chi beveva ad alta frequenza, si riscontrava anche un esito piuttosto inaspettato: gli astemi avevano un exit point di mortalità più sfavorevole sia dei bevitori occasionali sia, ancor più sorprendente, dei bevitori moderati occasionali. Tale risultato sia ripeteva uguale sia nei maschi sia nelle femmine. Poiché la causa principale di morte entro i 60 anni era di tipo cardiovascolare, Pearl dedusse dai dati che una spiegazione possibile fosse da attribuire all’uso moderato di alcol da parte di chi presentava un profilo di sopravvivenza maggiore rispetto a chi beveva di più, ma soprattutto a chi non beveva del tutto.
Pearl è dunque è tra i primi ad individuare la maggiore protezione dei bevitori occasionali moderati rispetto agli astemi. L’inclusione di questo gruppo è interessante perché arricchisce la potenziale spiegazione causale con ipotesi circa lo stato di salute di chi non beve. Ad esempio si può supporre una maggiore ansia o uno stato depressivo maggiore tra gli astemi potrebbe influenzare l’esito negativo di salute cardio-vascolare.
Pearl è dunque il primo epidemiologo che si è imbattuto nella cosiddetta forma a J (“i lunga” in italiano) per giustificare la relazione tra consumi alcolici ed esiti cardiovascolari. La ‘J’ si riferisce alla forma grafica della funzione che associa l’argomento “consumi” con il valore di “esito di mortalità”, grafico che parte in corrispondenza di un certo valore, quello del non consumo (la punta della J in basso a sinistra), per poi scendere a formare la concavità in corrispondenza dei consumi a basse dosi (consumo moderato) e poi impennarsi rapidamente verso destra (la maggiore mortalità in concomitanza con consumi eccedenti). L’andamento a J descrive appunto la relazione in corrispondenza dei punti di consumo.
La forma della curva si ha in quei fenomeni (non solo biologici) che hanno un effetto soglia: al di sopra di un certo valore la probabilità negativa aumenta mentre al di sotto, entro un certo range ben delimitato, la probabilità di malattia diminuisce. Dove ciò avviene si parla di effetto protettivo associato alla causa, in questo caso di effetto protettivo per la salute CV dei consumi moderati di alcol.
Dagli anni ’20 del ‘900 ad oggi l’esperimento è stato ripetuto innumerevoli volte in circostanze diverse e con esiti sostanzialmente confermati in popolazioni diverse per etnia, classe sociale, distribuzione delle patologie, e così via. Restavano indeterminate le ragioni della protezione dei bevitori moderati. Con il tempo e con il progredire delle ricerche si sono sviluppate ulteriori ipotesi esplicative e si è anche provato ad invalidare la curva a J. Invalidare, secondo il metodo scientifico, significa trovare delle anomalie, ovvero dei casi che non rispondono alla regola generale.
Altri studi, anche approfonditi, hanno utilizzato il metodo delle “variabili strumentali” che, con parola tecnica, viene chiamato randomizzazione mendeliana. Senza entrare in dettagli, basti sapere che se in una popolazione sono presenti tratti genetici che condizionano in mondo significativo un determinato comportamento è possibile “pesare” questa componente per ottenere curve ponderate attendibili sull’esito di malattia. Con queste tecniche il beneficio della moderazione si ridurrebbe quasi a zero. Altri lavori hanno sfidato l’ipotesi della inclusione degli astemi nel calcolo. Torneremo su questi argomenti.
Vedremo anche come altri studiosi hanno- tra cui un valente gruppo di epidemiologia italiani- hanno refutato questa conclusione con argomenti convincenti. Torneremo con particolari su tutti questi argomenti.
Congediamoci dunque dalla figura un po’ sbiadita di R. Pearl questo pioniere della biometria in un’epoca eroica della medicina con i numeri. Le foto che lo raffigurano ce lo presentano in posa “dandy” in completi ineccepibili e con uno sguardo un po’ supponente. Non stupisce che le testimonianze riportino che fosse amante della bella vita e non disdegnasse un drink quando c’era da bere. Ma questo è solo l’inizio della storia della curva a J.

EPISODIO N.2 – ALL’ORIGINE DELLA “CURVA A J”: RICERCHE E CONFERME

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Nel Podcast precedente abbiamo richiamato, a grandi linee, quella che abbiamo chiamato la “curva a J”. La relazione geometrica che studia il rapporto tra un certo input o causa e un certo tipo di risposta. Nel caso specifico abbiamo visto la relazione tra il consumo a basse dosi di bevande alcoliche e la risposta in termini di salute CV. Quindi di potenziale incidenza del “bere poco” sull’esito di malattia CV per un individuo.

Abbiamo ricostruito le prime osservazioni condotte su bevitori moderati, bevitori eccedenti e non bevitori fatte negli anni ’20 del secolo scorso dal geniale bio-statistico statunitense Raymond Pearl. Pearl constatò con un certa sorpresa che l’esito di mortalità dei non bevitori pesava più di quello dei bevitori moderati. Tuttavia, la curva si impennava subito quando si passava alla statistica dei bevitori in eccesso. Tali osservazioni sono all’origine di un’ipotesi “intrigante” che dura da più di 100 anni: che, cioè, una certa dose comunque bassa di consumo di bevanda alcolica abbia un effetto protettivo sulla salute umana.

Ma cosa vuol dire confermare e consolidare un risultato scientifico? Perché non ci portiamo a casa una conoscenza e non ce la facciamo bastare una volta per tutte? E, in questo come in altri casi, c’è una rincorsa tra dubbi, negazioni, contro-deduzioni revisioni? A che serve farsi domande e investire soldi pubblici nella ricerca se il quadro finale sembra sempre più complicato piuttosto che semplificato e soddisfacente per tutti?  

La risposta è che la scienza è un percorso per approssimazione, non un percorso che porta ad una conclusione definitiva. E questo lo sappiamo guardando alla storia dell’impresa scientifica: nuovi risultati possono vanificare quelli vecchi. Talvolta risultati nuovissimi riescono addirittura ad inficiare quelli nuovi riportando in auge quelli più distanti nel tempo. perciò un risultato socie tifico per quanto ben suffragato non è mai quello definitivo ed i risultati cui si perviene sono sempre aperti a revisioni e modifiche. Certe volte ciò avviene per ragioni relativamente banali: la prima versione di un esperimento cruciale può essere viziata da certe condizioni di contorno che poi si rivelano invece decisive nel riconsiderare i risultati ottenuti. Altre volte gli strumenti utilizzati per verificare un esperimento cruciale non avevano un potere di risoluzione adeguato. Verifiche successive con misure più precise o esperimenti più controllati possono perciò modificare i risultati originali. Questa è la realtà. Anche quando l’esperienza dimostra in modo piuttosto netto un risultato, esso non è mai tale da escludere che in certe condizioni si presentino anomalie e casi contrari. Bisogna accettare che il contraddittorio migliora le nostre conoscenze. e che il sapere scientifico procede più spesso a zig-zag su sentieri sconnessi, piuttosto che su strade dritte e lisce. Perciò anche i risultati meglio corroborato della ricerca, e ripetuti nel tempo, sono in un certo senso “a scadenza”.  E la loro validità va rinnovata nel tempo.

In questo secondo Podcast dedicato alla curva a J e al consumo a basse dosi, cercherò di dare un qualche coerenza alla domanda: perché certe ipotesi difese da alcuni ricercatori e rese popolari dalla divulgazione appaiono anche per molto tempo controverse e discutibili.

Nei decenni successivi a Pearl i suoi test sono stati ripetuti moltissime volte. Osservazioni replicate in vari contesti a distanza anche di molto tempo. Nel secondo dopoguerra si constatò, almeno in ambito occidentale, una ripresa marcata dell’incidentalità cardio-vascolare nella popolazione, un aumento se si vuole delle malattie cardiache. Ciò veniva imputato in primo luogo alle abitudini alimentari. L’imputato principale, allora come oggi, era la presenza di grassi nell’alimentazione, un fattore associato alla riprese del benessere e all’alimentazione molto più ricca e variegata rispetto alle ristrettezze cui erano stati costretti gli Europei in tempo di guerra.  Allora l’incidenza delle malattie CV aveva subito un netto arretramento. Abbastanza precocemente si noto però che alcune popolazioni la cui dieta era fortemente caratterizzata dalla presenza di grassi di origine animale aveva esiti di mortalità e di incidenza di malattie CV non comparabile ad altre. In altre parole, a parità di profilo dietetico non si presentavano gli effetti negativi. I Francesi in particolare mostravano questa anomalia che è passata ormai alla storia come “The French Paradox”, il paradosso francese. In assenza di una caratterizzazione precisa dei motivi che conducevano a questa anomalia, medici ed epidemiologi hanno cercato nello stile di vita una plausibile spiegazione delle differenze di esito di malattia e di mortalità. Un sospetto già presente fin del XIX sec. imputava ai consumi di alcolici, e segnatamente del consumo di vino ai pasti un tratto distintivo del consumo alimentare francese rispetto a quello dei paesi anglosassoni. Un consumo regolare e abituale di vino rosso poteva esercitare un’azione efficace e protettiva dal rischio cardio-vascolare? Naturalmente serve e oltre l’ipotesi un riscontro casuale sui motivi di una certa associazione.

Tra gli anni ’60 e ’70 del Novecento gli epidemiologi hanno ripreso il tema ed hanno cercato di testare l’ipotesi con tecniche statistiche capaci di mettere meglio a fuoco le osservazioni condotte sui campioni. Studi ripetuti, anche diversi per impostazione (studi osservativi, studi prospettivi, studi longitudinali metanalisi), condotti a diverse latitudini e in diverse culture, hanno evidenziato con un grado di coerenza la conferma della minore incidenza. Uno studio del 2000, più di 20 anni fa, evidenziava già come il bere a basse dosi correlasse con esiti inferiori di mortalità CV in ricerche condotte in tutto il mondo, tra cui: Italia, Giappone, Australia, Finlandia, Scozia, Svezia, Nuova Zelanda, Stati Uniti E altre ancora. Ma in ultima analisi queste conferme come si devono valutare? In che senso sono definitive o risolutive? Entriamo qui nella zona segreta o se volete più nascosta del ragionamento scientifico; quella parte dell’argomentazione che difficilmente trova sponda negli articoli dei giornali o nella vulgata che si crea su un argomento, Soprattutto, se questo riguarda la salute. Un primo modo di validare certe associazioni è quello di validare certe semplici relazioni logiche. Ad esempio, la relazione inversa a quella studiata: ad esempio se sembra che il bere a basse dosi protegga da certe malattie cosa succede se studiamo le alte dosi? Ad esempio, si constata facilmente che a dosi crescenti di assunzione di bevande alcoliche aumenta la pressione arteriosa. E correlativamente essa diminuisce se si ritorna a bere poco. Se un potenziale meccanismo funziona bene nelle due direzioni, c’è una forte probabilità che esso abbia u ruolo causale. Analogamente ci sono dei marcatori biologici che vanno nella direzione della conferma o rispettivamente della smentita di certe associazioni. Ad esempio, si è visto con studi metà degli anni 70 che i bevitori moderati hanno un livello più alto di HDL, lipoproteina colesterolo ad alta densità che spiega almeno parzialmente una riduzione dell’aterosclerosi e del rischio di malattia coronarica. E si è visto anche che la concentrazione della lipoproteina nel plasma è diversa in funzione del diverso livello di consumo di alcolici. Le conferme nel tempo di questi risultati epidemiologici rafforzano l’azione dei meccanismi biologici proposti dagli specialisti a livello di microbiologico fisiologico ed oggi anche a livello genetico e molecolare. Tutte queste attività sono poi state testate in parallelo nel lavoro clinico, quello condotto fianco a fianco dei pazienti che produce evidenze insieme sulla ricerca farmacologica portano a regime determinati risultati li trasformano in protocolli terapeutici standard. Prendere atto di questa inevitabile complessità testimonia di come un’intuizione primo risultato innovativo per quanto brillante e geniale, richiede molto lavoro successivo. 

Non basta però che queste associazioni si presentino più volte: oltre a confermare bisogna anche escludere. Gli studi, per conferire ad un’associazione un potere esplicativo tendenzialmente causale, devono essere anche controllati per la presenza di eventuali confondenti. I confondenti sono fattori più o meno noti che possono causare interferenza nell’inferenza da una causa potenziale ad un effetto.  In ogni caso studi caso controllo e studi prospettici ben condotti, hanno confermato molte volte la riduzione di eventi coronarici per i bevitori moderati. La conferma statistica è data dalla coerenza della relazione tra diversi livelli di consumo e danno cardio-vascolare descritti dalla forma delle curve a ‘J’ o a ‘U’. Ciò vale per un buon numero di patologie CV anche se non tutti gli effetti CV vascolari hanno la stessa forma. Queste differenze non sono sottigliezze. Spesso i ricercatori si trovano nella situazione di dover trarre ispirazione da casi precedenti, ma elaborando casi nuovi sono costretti a verificare fatti inediti. Questo è un compito faticoso che esige precisione ed un atteggiamento umile che diffida dalle generalizzazioni confortanti. E che considera sempre l’anomalia che, se poco plausibile, come la spia di un potenziale meccanismo causale alternativo che deve essere testato empiricamente e non trascurato a priori. Per cui in un certo senso il ricercatore scrupoloso dovrebbe sempre accettare di dover ricominciare da capo se vi sono indicazioni in quel senso. Nella lunga tradizione di ricerche epidemiologiche una persuasione prevalente convive sempre con vari dubbi, più o meno forti. Il caso delle bevande alcoliche e degli effetti sulla salute cardiaca appartiene senz’altro a quest’ambito. Parte della ragione attiene senz’altro a ragioni di tipo socio-culturale. Oltre alla persuasione su benefici di certi comportamenti che talvolta sfiora anche i ricercatori in quanto individui umani calati in un certo clima sociale e culturale, le osservazioni danno talvolta esiti confermativi non definitivi che però in un certo contesto possono apparire molto convincenti.  Ad esempio. gli studi ecologici, cioè studi di popolazioni condotti su popolazioni condotti anche su grandi numeri in ambienti relativamente omogenei sotto il profilo delle abitudini e forse anche sotto il profilo dii una certa omogeneità genetica, tendono a confermare certi risultati. il paradosso francese che abbiamo menzionato è forse almeno in parte condizionato sa fattori ambientali che è possibile che “spieghino troppo”. In questo casi è bene essere molto scrupolosi nell’analisi dei confondenti che si rischiano di trascurare per. un eccesso di fiducia nel meccanismo esplicativo che appare più ovvio. Un altro aspetto che si deve considerare sempre è la capacitò dello studio considerato di classificare con precisione e coerenza: (i) la nozione di persona che beve, rispetto a quella che non beve (o che non beve più). (ii) L’espressione corretta e coerente delle quantità bevute utilizzate nell’analisi. Queste condizioni che sembrano elementari, spesso sono trattate in modi molti difformi nei diversi studi e concorrono a rendere le comparazioni difficili e talvolta impossibili. Ciò riporta a concludere con due osservazioni: la prima che ogni studio, anche il meglio condotto, si basa su una ragionevole compensazione e compromesso tra diverse informazioni. Non è possibile convogliare in un unico studio troppe informazioni senza perdersi. Questo in parte spiega perché anche studi molto brillanti e ben riusciti richiedono sempre di controllati e testati con ripetizioni, con altri studi che tendenzialmente dovrebbero correggere i limiti di altri studi precedenti. La seconda osservazione è che non è sempre possibile limitare il ruolo dei confondenti e limitarne quindi l’influenza diretta o indiretta. Ogni risultato va perciò bilanciato alla luce dei punti di forza e dei punti di debolezza del metodo e delle possibilità che ogni lavoro presenta.

Su questi aspetti cercheremo di gettare un po’ di luce nel prossimo podcast dedicato appunto a questi aspetti critici.

EPISODIO N.3 – ALL’ORIGINE DELLA “CURVA A J”: CAMPIONI E CONFONDENTI, LA STATISTICA DELLA CURVA A J

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In questo terzo podcast dedicato all’origine e allo sviluppo della cosiddetta curva a J approfondiremo le ragioni pro e contro l’ipotesi protettiva della curva a J stessa. Per capirle, bisogna entrare nel merito del modo in cui si costruiscono gli studi e si interrogano e si elaborano i dati. Ricapitoliamo l’essenziale. La curva a J è interpretabile come l’espressione analitica e geometrica di una distribuzione nella quale si riscontra un cambio di direzione nella relazione tra causa potenziale ed effetto. Nel caso dell’alcol, tra dose ingerita e danno cardiovascolare. Emergerebbe che il bere a basse dosi correla con una protezione cardiovascolare e a esiti favorevoli rispetto sia a chi non beve, gli astemi, sia a chi beve tanto, oltre i 40 g di alcol al giorno. Se essa fosse verificata, significa che il consumo di alcol a dosi moderate ha un valore protettivo per i danni cardiaci. Va aggiunto che questa relazione è confermata da studi condotti sulle diverse bevande alcoliche: se la J si manifesta nei consumatori di vino, risultati del tutto comparabili si riscontrano tra i consumatori di birra. Forse ci si sorprenderà, ma c’è un forte parallelismo tra birra e vino anche per quanto riguarda i meccanismi biologici che rendono benefiche le basse dosi come registrato da un documento di consenso di alcuni anni fa (2013).


Abbiamo già richiamato un aspetto essenziale della metodologia della ricerca: risultati anche confermati devono sempre essere sottoposti a controlli rigorosi, che non solo certifichino il risultato, supportandone la consistenza, ma anche attestino la robustezza rispetto a possibili confondenti. Idealmente, oltre a confermare un risultato, uno studio ben condotto dovrebbe poter escludere in modo convincente che un certo tipo di esito non dipenda in modo sistematico dalla sottovalutazione di fattori non noti o non debitamente ipotizzati, fattori che potrebbero condizionare l‘ipotesi fino al punto di refutarla. Ciò è vero soprattutto in un campo della ricerca empirica come quello medico-biologico nel quale le anomalie e le interazioni tra fattori sono frequenti e condizionano quadri biologici molto complessi, che possono essere scambiati l’uno per l’altro.


Nei prossimi minuti ci occuperemo di alcuni confondenti. Proverò in questa puntata, in particolare, a evidenziare due distinte fonti di confusione. In primo luogo, le interazioni problematiche, dette anche ‘selection bias’ o ‘bias di selezione’. In secondo luogo, il fenomeno forse più noto per quanto riguarda l’alcol, cioè quello dei cosiddetti ‘sick quitters’, ovvero l’inclusione nella classe dei non bevitori o astemi di ex-bevitori, che può condizionare l’esito delle curve di rischio a favore dell’ipotesi protettiva.


Un tipo di interazione che può essere problematico riguarda la possibilità di avere, per una data causa di mortalità o di malattia, un impatto maggiore o minore dato da fattori rivali. È intuitivo che poiché non tutte cause di patologia o di morte hanno la stessa istantaneità o evoluzione nel tempo, le malattie o eventi avversi con un tempo maggiore di sviluppo hanno un numero più grande di spiegazioni rivali, e quindi sono esposti a un più grande livello di potenziale confusione. Al contrario, eventi puntuali e improvvisi si spiegano da sé, e quindi sono meno esposti alla sfida posta ipoteticamente da altre ipotesi. Ad esempio, una patologia come il cancro, che richiede anni o qualche volta decenni per manifestarsi, pone sempre delle valutazioni comparative rispetto ad altri fattori potenziali di induzione. Per contro, la mortalità associata all’incidentalità, che ricordiamo è riconducibile in un certo numero di casi all’abuso di alcolici, non ha praticamente spiegazioni rivali. Il controllo di questo tipo di fenomeni può essere compreso prendendo a modello uno studio di eccellente fattura risalente a qualche decennio fa: uno studio del 1997 pubblicato sul prestigioso New England Journal of Medicine, che ha come primo autore Richard Thun e come co-autori i famosi epidemiologi inglesi Richard Peto e Richard Dole, unanimemente riconosciuti come coloro che hanno contribuito a stabilire il modo definitivo la relazione causale tra fumo di sigaretta e cancro al polmone. Lo studio considerava un campione di 490.000 cittadini americani di età compresa tra i 35 e i 79 anni, il cui uso di alcol è stato osservato dal 1982 per un decennio. Scopo del lavoro era chiarire la relazione tra i consumi di alcol a diversi livelli e la mortalità totale, cioè per tutte le cause. Nel corso del periodo, sono stati registrati 46.000 decessi tra le persone arruolate.


Gli investigatori si sono posti l’obiettivo di capire come i consumi di alcol a partire dalla data di partenza dell’osservazione contribuivano alle diverse cause di mortalità e in che misura; in secondo luogo, in che modo il genere, l’età e le preesistenti condizioni di salute, in particolare cardiovascolare, concorrevano a determinare la mortalità; e infine di confrontare come alcol e fumo contribuiscono al rischio di mortalità nella classe di mezza età tra i 35 e i 69 anni. I consumi sono stati ricavati dall’auto-dichiarazione dei partecipanti su tre livelli, mentre la categoria dei non bevitori è stata attentamente selezionata cercando di evitare l’inclusione di ex-bevitori. L’analisi statistica è costituita dal calcolo dei rischi relativi per età, l’esito atteso era la mortalità per ogni livello di consumo di alcol comparato con l’esito di mortalità dei non consumatori. I risultati comprendono i dati di mortalità totale, quelli specifici per le condizioni cardiovascolari e quelli delle malattie legate all’alcol, elaborando in modo distinto le probabilità di mortalità per ciascuno dei tre gruppi di variabili pertinenti. Grazie a questa impostazione, i ricercatori sono stati in grado di ricavare alcuni risultati molto solidi, essenzialmente tre. In primo luogo, (i) i bevitori moderati rispetto ai non bevitori presentano una probabilità di circa il 20% inferiore di mortalità per tutte le cause, confermando una distribuzione a J. (ii) la mortalità è influenzata dalle condizioni cardiovascolari preesistenti, che sono diverse per gruppi di età, con un’incidenza maggiore nella classe 60-79 anni. (iii) l’uso continuativo di tabacco, soprattutto nella classe di mezza età, controbilancia qualsiasi effetto benefico del bere a basse dosi. Questa indagine utilizza in modo molto convincente i dati a disposizione, che sono numerosi, formula ipotesi molto precise, che comprendono analisi differenziate per i diversi tipi di patologie, e controlla con cura i potenziali confondenti, con un buon controllo delle covariate e l’esclusione degli ex-bevitori nella classe degli astemi.


I risultati sono essenzialmente confermativi della curva a J e dell’effetto protettivo delle basse dosi. Ma giustamente i ricercatori mettono in guardia da un eccesso di semplificazione del risultato ottenuto. Da un lato, fanno notare che il campione utilizzato copre, sia pure con buona approssimazione, la popolazione generale, ma si tratta di una popolazione propria di un contesto socio-culturale molto caratterizzato, quello del Nord-America, i cui stili di vita e di consumo non è detto siano generalizzabili. In secondo luogo, avvertono che la focalizzazione dell’indagine sull’età compresa tra i 35 e i 79 anni pone delle cautele nella derivazione dei risultati di sintesi. In quest’arco convivono infatti persone giovani e persone anziane: poiché, come si diceva, l’incidenza e lo sviluppo delle patologie pesa in modo diverso nelle diverse età, è chiaro che il risultato generale risente di effetti potenzialmente distorsivi rispetto alla valutazione del rischio specifico per età più puntuali o per intervalli più corti. In particolare, lo studio sottolinea correttamente che gli effetti del danno associato specificatamente a malattie correlate al consumo di alcol a diverse dosi e quello associato al vantaggio cardiovascolare possono alterare le curve di rischio rispetto alla mortalità totale. I giovanissimi, ad esempio, quelli fino a 29 anni, per i quali l’incidentalità come causa di morte associata ai consumi di alcol bilancia la statistica in senso sfavorevole, che appunto sono esclusi da questo studio. All’altro estremo abbiamo gli over 60, per i quali il rischio di incidente cardiovascolare pesa per il 45%, con evidenziazione quindi dell’effetto protettivo. Nello studio in questione, l’esclusione dei giovanissimi riduce potenzialmente una mitigazione del vantaggio cardiovascolare, ma i ricercatori hanno dichiarato questo limite, noto come effetto della mortalità prematura: quello per cui, se non si considerano certe classi di età, si tolgono morti potenziali nell’analisi, e se se ne considerano altre, si aggiungono sopravvissuti potenziali nell’analisi stessa.


Lo studio che abbiamo ricapitolato si pone senz’altro in una fascia di qualità alta, sia per l’ampiezza del campione che per il trattamento dei confondenti. Andiamo alle conclusioni riprendendo un tema classico che abbiamo già toccato: quello della categorizzazione all’interno degli studi di coloro che si dichiarano astemi. Gli astemi sono utilizzati come gruppo di comparazione per stimare i rischi relativi di mortalità/malattia in corrispondenza di diversi livelli di consumo. Perciò è essenziale che la loro inclusione nei campioni sia fatta con procedure rigorose. Tipico è il caso degli ex-bevitori, cioè di quelle persone che al momento dell’arruolamento sono ascrivibili nella categoria dei non bevitori, ma che in realtà lo sono diventati da poco. In molti casi, tra essi si registrano i cosiddetti ‘sick quitters’, letteralmente coloro che hanno cessato di bere per motivi di salute e che quindi entrerebbero nel campione con un profilo di salute compromesso, con effetti immaginabili nel confronto con i bevitori moderati. Il punto è in teoria ovvio, ma dal punto di vista pratico può essere difficile, quando non impossibile, separare gli astemi reali dagli ex-bevitori utilizzando un’unica domanda di screening al momento del reclutamento del campione. In alcuni studi è stato operato addirittura un ricalcolo che corregge gli effetti distorsivi dell’inclusione degli ex-bevitori tra gli astemi, con il risultato di attenuare e addirittura cancellare l’esito favorevole del consumo a basse dosi.


Ho riproposto in maniera iper-semplificata alcuni fattori che concorrono a complicare lo studio della relazione tra consumo di alcolici e salute, espressa sia come predizione di mortalità sia di malattia, e ho messo in evidenza come tale relazione può essere esposta ad effetti distorsivi, sia dal lato di aumentare la protezione, sia dal lato di diminuirla. Si è visto come le scelte relative alle ipotesi, alla qualità dei dati in ingresso, al controllo dei bias di selezione per ridurre gli errori sistematici, alle strategie di elaborazione dei dati, possono tutti, singolarmente e insieme, spostare, anche in modo significativo, i risultati. È perciò essenziale che gli autori degli studi e i lettori siano consapevoli di questi aspetti e, se autori, li dichiarino con molta chiarezza nei loro articoli. Del resto, il fascino della ricerca scientifica è dato proprio dalla sfida costituita dal fatto che nessun risultato è di per sé definitivo e che nessun metodo può garantire il conseguimento di risultati definitivi. Ma può contribuire a rendere meno incerte le nostre conclusioni approssimandole sempre di più al vero. Tutto ciò costituisce il sale della ricerca. Torneremo su questi aspetti a partire dal prossimo podcast.

EPISODIO N.4 – ALL’ORIGINE DELLA “CURVA A J”: SE CI SONO I BENEFICI, PERCHÉ LI SI METTE IN DUBBIO?

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Nella terza puntata di questa serie dedicata all’origine e allo sviluppo della cosiddetta curva a J, abbiamo cercato di ricostruire il processo attraverso cui i ricercatori controllano l’attendibilità dei dati e della loro interpretazione statistica. È un tema molto complesso che però è riconducibile ad una questione fondamentale: le risposte ad un quesito dipendono dalla qualità delle domande, e le domande dipendono dalle ipotesi che sulla base dei dati a disposizione, possono essere verificate con successo. Abbiamo raccontato con esempi della letteratura specialistica, la sfida metodologica posta dal controllo dei confondenti, cioè di quei fattori, manifesti o nascosti che, se ignorati, possono alterare significativamente i risultati dell’indagine fino al punto di evidenziare una relazione causale dove non c’è o di escluderla dove invece c’è. In questo quarto podcast ci poniamo l’obiettivo di illustrare come reagire a quei messaggi misti, e talvolta contraddittori, che, sullo sfondo della discussione scientifica, si traducono in una comunicazione non univoca per i non esperti e quindi, potenzialmente, anche per il consumatore.


Nel campo delle ricerche su alcol e salute assistiamo da alcuni anni ad una crescita di posizioni scettiche, quando non addirittura negazioniste sul beneficio delle basse dosi che ha conquistato parte della comunità scientifica e hanno un’influenza importante sulle autorità sanitarie e sui programmi di salute pubblica. Il punto di appoggio di questa offensiva è sempre quello dell’inaffidabilità dei benefici cardiovascolari, in quanto viziati da bias e confondenti. Un articolo importante del 2018 svolto su 19 di paesi ad alto reddito e che coinvolge più di 500.000 individui afferma che non ci sarebbe una soglia entro cui il consumo non é a rischio, e invita a considerare l’alcol sicuro solo al livello 0…

Un altro contributo di qualche anno prima (Stockwell, 2015) conclude dal riesame della letteratura sul vantaggio delle basse dosi per la mortalità totale che. “l’analisi degli studi di maggiore qualità corretti per i bias mostravano una minore probabilità di evidenziare un rischio ridotto di mortalità a basse dosi. Inoltre la massa dei risultati è più coerente con un esito lineare dose-risposta piuttosto che con una curva a J”… Negando quindi una riduzione del rischio di mortalità per i bevitori moderati. Anche un editoriale di Lancet del 2018 dichiara che: “nessun livello di consumo di alcol migliora la salute” e i benefici parziali delle basse dosi: “sono sbilanciati da rischio aumentato di altri danni alla salute compreso il cancro”. Un articolo inglese del 2022 si spinge a parlare nel titolo di “mito della protezione cardio-vascolare”. Insomma, ci invitano ad esercitare “una salutare dose di scetticismo” come suona il titolo di un altro articolo. Dunque, campane a morto per la curva a J? Le cose non sono così semplici, come vedremo.
Le drastiche affermazioni citate sono estrapolate da contesti più o meno robusti sotto il profilo scientifico. Ma appartengono ad un filone riconoscibile di opposizione frontale al messaggio dell’esistenza di una soglia limite sotto la quale bere, sebbene non consigliabile per ragioni mediche, è però compatibile con la salute, sia pure in modo limitato e qualificato. Molte affermazioni ostili alla moderazione, anche su riviste prestigiosissime, hanno un carattere più retorico che strettamente scientifico e riflettono linee editoriali del sistema di influenza del mondo scientifico verso la politica ed i regolatori. Un ruolo comprensibile, in parte, ma che non va confuso con i risultati della ricerca che sono sempre parziali e, per definizione, confutabili, anche quando estremamente attendibili.
La lezione importante da apprendere dai dubbi e dalle contro-deduzioni è in primo luogo quella del non manicheismo. Non sempre i risultati sono in bianco-nero e incontrovertibili, anzi il più delle volte non lo sono. Perciò anche il ricercatore più convinto deve avere prudenza nel difenderli e mantenere un atteggiamento aperto al confronto e alla riprove di altri gruppi di ricerca. Vale anche per la questione dei confondenti.

Un lavoro di grande accuratezza condotto da un team spagnolo del 2022 (Barberìa-Latasa et al 2022), aiuta a mettere nella giusta prospettiva i meriti della curva a J e i dubbi degli scettici. I ricercatori sottolineano come ogni affermazione a favore o a sfavore delle basse dosi, deve essere contestualizzata e letta sullo sfondo dei potenziali modificatori che entrano nella determinazione del potenziale sentiero causale. Ad esempio, le diverse bevande alcoliche consumate e lo stile di consumo mediati da diverse intensità e frequenze; e ancora: il consumo di alcolici ai pasti è stato associato ad una riduzione della cirrosi nell’ordine del 31%; un drinking pattern tipicamente mediterraneo, entrato prevalentemente sul vino rosso e senza binge drinking: esso è coerente con una minore mortalità totale rispetto agli astemi. Inoltre, la direzione del confondente può andare anche a vantaggio della curva a J. È stato constatato che i forti bevitori spesso dichiarano consumi inferiori provocando in questo modo la sovrastima della curva di rischio che compare ad assunzioni più basse di quelle reali. Trascurare di mettere in evidenza questi aspetti può condurre al fastidioso fenomeno del cherry-picking, cioè della scelta selettiva di ricerche coerenti con il proprio punto di vista o pregiudizio, per supportare una scelta ideologica, come la promozione di una politica pubblica, ad esempio nell’ambito della prevenzione alcologica.

Considerazioni simili toccano anche la relazione causale tra alcol e cancro che oggi nessun ricercatore mette in dubbio. Eppure, non mancano studi seri che, anche in questo campo, mostrano una minore suscettibilità ai tumori da parte dei consumatori moderati rispetto ai non consumatori, almeno in certe condizioni. Forti di queste consapevolezze, possiamo riavvicinarci con mente più attrezzata a riconsiderare criticamente la letteratura che rivendica l’esistenza della curva a J e della protezione cardiovascolare del bere moderato.

Un primo elemento tocca la molteplicità dei mediatori che riguardano il bere moderato. Uno studio australiano (Boban 2016) mette in luce come la protezione cardiovascolare esca rafforzata da comportamenti sinergici e convergenti: bere moderatamente, solo ai pasti, aderendo ad una dieta mediterranea unita all’attività fisica regolare e ad uno stile di vita equilibrato, correla con un profilo di salute complessivamente migliore. Ad esso non è estraneo un consumo moderato di alcolici – vino in primo luogo – connesso ai noti benefici antiossidanti dei componenti polifenolici della bevanda. Questi aspetti macro sono spesso criticati perché specifici di certe popolazioni (ad esempio quelle del sud Europa), di certi stili di consumo (basati su alta intensità e bassa frequenza), di certi stili di vita (in cui prevale l’attenzione alla salute, la dieta rigorosa e l’attività fisica), e spesso, l’appartenenza ad un ceto sociale più elevato. C’è del vero in questo e tuttavia non si è ancora dimostrato che questi fattori escludono l’azione vantaggiosa del bere poco.

Una revisione narrativa del 2014 (M. Roereke e J. Rehm), che controlla bene i confondenti sulla protezione della malattia ischemica, conferma l’effetto protettivo a basse dosi anche se può essere ridimensionato da occasioni di heavy drinking da parte degli stessi individui. Come si vede le diverse angolature degli studi mettono in luce aspetti diversi: piccole variazioni nell’ipotesi o nell’approccio al tema possono dare origine ad esiti diversi. Su questa linea di argomentazione non si possono non condividere le considerazioni di uno studio del gruppo italiano del Neuromed di Pozzilli (Costanzo et al, 2019), che riprendendo il filo della questione, fa notare quanto segue: (i) gli studi che controllano rigorosamente i confondenti mostrano che una certa protezione cardiovascolare sussiste pressoché sempre per esempio anche quando il gruppo di controllo non è quello degli astemi ma dei bevitori occasionali); (ii) l’underreporting degli alto-consumanti conduce a sovrastime del rischio, spesso trascurate; (iii) l’esclusione dei non bevitori attenua certamente la curva e le modellizzazioni matematiche condivise da molte metanalisi conferiscono alla relazione causale una forma lineare – cioè non a J – che appare forzata; (iv) esistono confondenti anche nella posizione opposta, che nega la curva a J, ma questi sono raramente menzionati in letteratura: (v) benché l’azione dell’alcol come causa di malattia sia molto complessa ed articolata, l’esito di mortalità totale resta un’affidabile misura dell’associazione causale del bere a diverse dosi. Questi risultati hanno un alto tasso di affidabilità e di convergenza e sono invarianti rispetto all’azione delle diverse bevande alcoliche (come dimostra un lavoro del 2021: Estruch & Hendriks).

Facciamo in conclusione tesoro di tutti questi ragionamenti e dati. La pericolosità del bere per la salute, associata a un elevato numero di malattie e di esiti di mortalità, sia nel campo delle affezioni cardio-vascolari sia in quello delle malattie croniche come il cancro è fuori discussione e ben documentata dalla ricerca medica e dagli studi epidemiologici. Tale risultato è sicuramente acquisito per i consumi ad alte dosi e prolungati nel tempo. Il danno si conferma in funzione della quantità – e in parte degli stili di consumo- ed è comune a tutte le tipologie di bevande alcoliche. Tuttavia, questi esiti non possono però essere generalizzati applicandoli in modo acritico al bere a basse dosi, la definizione operativa e mai troppo precisa del concetto popolare di “bere moderato”. Da circa un secolo, e in modo sempre più raffinato negli ultimi 50 anni, la ricerca ha riscontrato con regolarità un effetto protettivo per alcune malattie cardio-vascolari che si riflette a livello epidemiologico in un esito favorevole sulla mortalità totale. La forza e la direzione della relazione causale dell’effetto protettivo è fortemente condizionata da confondenti che, soprattutto in passato, conferivano all’ipotesi protettiva una certa generosità; ma anche se si adottano, come doveroso, controlli rigorosi dei confondenti, l’ipotesi protettiva sopravvive e appare ben suffragata dai dati. Altri fattori esplicativi della protezione a basse dosi attendono conferme (o smentite) da studi ulteriori. Non si dimentichi poi, che almeno alcune delle riserve sul valore del bere a basse dosi deriva da un orientamento conservativo di salute pubblica condiviso da molti ricercatori, università e gruppi di interesse che, per convinzione e per convenienza, promuovono approcci restrittivi nei confronti dell’alcol. Un elemento delicato di rilevanza sociologica e politologica che tocca il problema dei conflitti di interesse.

Ma prima di arrivare alla considerazioni finali di questo affascinante tema scientifico dobbiamo affrontare il misterioso e intrigante metodo della randomizzazione mendeliana che sarà oggetto del prossimo appuntamento di questa serie.

EPISODIO N.5 – ALL’ORIGINE DELLA “CURVA A J” – Il dubbio oltre la curva: la randomizzazione mendeliana

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Nelle due puntate che precedono di questa serie dedicata all’origine e allo sviluppo della cosiddetta ‘curva a J’, la relazione che spiegherebbe il beneficio cardiovascolare del bere moderato, si è dato spazio all’esame di alcune obiezioni, soprattutto in epidemiologia, rivolte ai metodi, alla significatività e alla generalizzazione dei risultati protettivi del bere a basse dosi. Si è approfondito il tema dei confondenti, poiché dal controllo dei confondenti dipende la robustezza della relazione causale e quindi del potere di spiegazione di un’indagine empirica.

Da alcuni anni, studi di epidemiologi di vaglia pubblicati su riviste di primo piano rivendicano di aver messo seriamente in dubbio i benefici delle basse dosi, proprio a motivo di un raffinamento dell’approccio metodologico. La metodologia adottata per calcolare questi esiti è denominata randomizzazione mendeliana, abbreviata in RM: una terminologia, come si intuisce, per iniziati, che però inizia a essere presente anche in contesti extra-tecnici e divulgativi. Si tratta di un’applicazione dell’approccio noto come metodo delle variabili strumentali, da tempo conosciuto dai bio-statistici e usato in determinate situazioni. La tecnica sfrutta ingegnosamente conoscenze associate a determinati tratti genetici per limitare l’effetto dovuto a confondenti.

La pubblicazione di studi che utilizzano la randomizzazione mendeliana applicata alla relazione tra bevande alcoliche ed esiti cardiovascolari non si è fatta attendere. Oltre all’interesse scientifico, la questione ha rilievo di politica sanitaria, perché alcuni studi e ri-analisi svolti con la RM avrebbero ridimensionato, se non falsificato, in modo definitivo le ragioni a favore dell’esistenza di un effetto protettivo del danno cardiovascolare associato al consumo moderato. Se confermati, questi esiti costituirebbero un pesante indizio a sfavore di benefici qualsivoglia del bere moderato, che giustificherebbero quindi azioni di policy intese a contrastare il consumo a ogni livello. La posta in gioco è dunque alta. In questo podcast cercheremo di dare una rappresentazione, inevitabilmente semplificata, delle ragioni in campo e di trarre qualche modesta conclusione.

Ogni campione di popolazione porta con sé distorsioni legate alla dimensione, alla composizione o ad altre caratteristiche poco chiare o poco conosciute della popolazione rappresentata. Avere un buon campione ed una buona metodologia consentono di raffinare la qualità della stima: un buono studio epidemiologico, dunque, contribuisce alla conoscenza reale dell’oggetto che si studia. Il problema dei confondenti aiuta a capire meglio come si fanno le inferenze in epidemiologia. Un approccio ingenuo porta a considerare la spiegazione scientifica alla luce di qualche teoria della conferma: date per conosciute certe leggi e osservando un paziente, se il caso particolare presenta caratteri empirici tali da renderlo conforme alla legge generale, si può sussumere il particolare nel generale, ottenendo la spiegazione. Per esempio, correlando un sintomo ad una patologia. Questo modello è essenzialmente modificato dalla considerazione che, spesso, in ambito medico-biologico la generalizzazione di leggi dipende da una distribuzione probabilistica: le regole della probabilità rendono più o meno plausibile un risultato date certe condizioni iniziali.

Naturalmente esistono diversi livelli dell’affidabilità di un’inferenza. Idealmente, si dovrebbe sempre poter avere una procedura che minimizza l’effetto dei confondenti. Questo requisito oggi è ritenuto possibile in assoluto solo nei cosiddetti studi controllati randomizzati, abbreviati RC. Si tratta di studi nei quali la relazione oggetto di interesse, ad esempio la prova di efficacia di un farmaco o la suscettibilità di una popolazione ad una certa patologia, è condotta sperimentalmente. La RCT prevede l’uso di due campioni: il primo target e il secondo di controllo. Solo ad uno è proposto l’intervento, ad esempio un farmaco che si sta sperimentando, oppure l’esposizione al rischio di un certo tipo di agente. All’altro campione si somministra un placebo, oppure nulla. L’elemento chiave di controllo è dato dalla selezione casuale dei soggetti all’uno o all’altro gruppo: in questo modo si cerca di ridurre al minimo la possibilità che nei due gruppi siano presenti fattori che possono influenzare in una direzione o in un’altra l’esito sperimentale. Si deve però notare che tale metodo presenta problemi di natura etica, spesso insuperabili, quando si vogliano studiare effetti che prevedono esporre delle persone a dei rischi più o meno conosciuti: in uno studio controllato ideale gli individui studiati, in altre parole, non possono non essere trattati come cavie. Il caso dell’alcol appartiene a questa categoria.

In tempi recenti, sono state proposte metodiche che potrebbero superare il problema dei limiti insormontabili che impediscono l’adozione della CRT. Il più noto è il metodo delle variabili genetiche strumentali più conosciuto come randomizzazione mendeliana. Non è intuitivo comprendere cosa si nasconde dietro queste parole. L’approccio randomizzato mendeliano combina due caratteristiche: l’uso di variabili che hanno a che vedere con tratti genetici, da cui l’aggettivo ‘mendeliano’, e una procedura casuale, da cui il sostantivo ‘randomizzazione’. Si tratta di un approccio che serve a by-passare il problema dell’assenza di studi sperimentali. La genetica consente al riguardo una tecnica sofisticata, basata sulla disponibilità in grandi banche dati di quelli che vengono chiamati “loci genetici”, grosso modo posizioni di geni in un cromosoma, che istruiscono una relazione tra un tratto genetico e un tipo di effetto. Poiché tale relazione è, 1) supposta conosciuta e quindi stabile, e, 2) il genotipo è assegnato casualmente alla nascita, è possibile utilizzare queste condizioni per costruire delle variabili strumentali che rendano più robusta l’inferenza statistica. L’elemento chiave è che i cosiddetti “polimorfismi genetici”, grosso modo le varianti di un genotipo dato, sono impiegabili come variabili strumentali al fine di studiare la relazione causale sfruttando l’assunzione, piuttosto forte, che la distribuzione casuale del tratto in esame in una popolazione renda la relazione tra il polimorfismo e il suo effetto priva di confondenti. Se così fosse, otterremmo i vantaggi dell’approccio RCT dentro la cornice concettuale di un classico studio osservazionale, migliorandone sensibilmente l’affidabilità. Da qui il significato di ‘strumentale’ in ‘variabile strumentale’: la variante genetica funge da strumento per accertare che la relazione causa-effetto non sia influenzata da altri fattori.

Nel casi della relazione tra alcol e danno, si è partiti dalla conoscenza di una variante genica, il locus genico ALDH2, che codifica la risposta dell’organismo umano alla produzione eccessiva di acetaldeide. In particolare, il gene in questione provoca nei suoi portatori una bassa propensione al consumo di alcol a causa del malessere connesso proprio all’accumulo di acetaldeide. Due articoli in particolare hanno affrontato la questione.
Uno studio del 2014 sul British Medical Journal ha utilizzato come variabile strumentale il gene ADH1B, più precisamente il polimorfismo denominato RS1229984, che regola proprio l’accumulo di acetaldeide. Partendo dal livelli dei consumi di bevande alcoliche, l’esito ricercato erano l’incidenza e la prevalenza di malattie cardiovascolari. I risultati evidenziano che i portatori della variante genica menzionata presentano complessivamente un’incidenza inferiore di patologie cardiovascolari rispetto al gruppo dei non portatori, indipendentemente dai livelli di consumo. Se ciò è confermato, significherebbe che l’effetto protettivo sul cardiovascolare associato ai bassi consumi deriva, probabilmente, da confondenti e quindi può essere messo in discussione.

Uno studio del 2019 apparso su Lancet, prima firmataria Milwood, ha rilanciato con vigore i vantaggi della randomizzazione mendeliana, osservando per più di 10 anni più di mezzo milione di individui, tutti provenienti da 10 province della Cina continentale. Milwood e collaboratori hanno incluso nell’analisi più di 150.000 individui portatori del genotipo associato alla variante genica ALDH2RS71 e alla già menzionata RS1229984, entrambe coinvolte nella regolazione dell’accumulo di acetaldeide, e le hanno impiegate come variabili strumentali. Sono stati misurati sia i livelli di consumo su quattro categorie, sia l’incidenza di patologie cardiovascolari nel follow-up. Il calcolo degli esiti di malattia, eseguito sia con l’epidemiologia convenzionale sia con la randomizzazione mendeliana, mostra che i risultati sono nettamente diversi nelle due analisi: mentre l’esame convenzionale evidenzia una distribuzione ad U degli esiti cardiovascolari, con una zona di protezione evidente in corrispondenza dei consumi moderati, l’esame basato sulla randomizzazione mendeliana esclude ogni tipo di protezione e, anzi, mostra un andamento lineare della curva che associa esposizione e rischio. In estrema sintesi, l’applicazione della RM ai dati di popolazione già studiati con metodi convenzionali determina un ricalcolo della distribuzione ottenuta: la randomizzazione mendeliana, se al di sopra di ogni dubbio, conduce dunque ad una correzione sostanziale dei dati epidemiologici correnti.

L’affidabilità della randomizzazione mendeliana comporta una valutazione della solidità di due principi cardine dell’analisi condotta con variabili strumentali. 1) È dimostrato oltre ogni dubbio che un genotipo è allocato in modo casuale in una popolazione alla nascita? 2) È dimostrato oltre ogni dubbio che un genotipo condizioni l’effetto in modo univoco e stabile? Le due questioni sono complesse e possiamo solo sfiorare il tema facendo riferimento a pareri di esperti e alla letteratura recente, tra cui un contributo metodologico a prima firma di Mukamal comparso sullo European Journal of Epidemiology. Nel caso della prima domanda, forse qualche dubbio rimane. Infatti, non si può escludere la situazione per cui una popolazione è stratificata, comprendendo al suo interno sottopopolazioni condizionate da varianti genotipiche proprie, con propri effetti non conosciuti. In un caso simile, i confondenti non sono esclusi e quindi si determinano gli stessi effetti di alterazione della relazione causale presente negli studi osservazionali. Quanto alla seconda domanda, i genetisti chiamano ‘pleiotropia’ la proprietà per cui, talvolta, i geni hanno sentieri causali multipli: i loro effetti, cioè, passano attraverso una molteplicità di relazioni, che di fatto indebolisce la valenza strumentale della variante genetica implicata, anche qui con reintroduzione dei confondenti.
Rispetto all’alcol, il problema dell’efficacia come variabile strumentale del genotipo di riferimento per la randomizzazione mendeliana è rilevante, per due ragioni. La prima: la non accuratezza dovuta ad un errore di misurazione nell’intake di alcol contribuisce ad indebolire la solidità della relazione dell’esposizione basata sul genotipo utilizzato. La seconda: la relazione tra genotipo ed esposizione può essere condizionata da fattori specifici della sottopopolazione, che influenza la relazione e quindi ripropone il problema dei confondenti. La RM, perciò, è una tecnica preziosa di indagine, ma non può essere considerata risolutiva. L’applicazione all’alcol è un esempio dei suoi limiti, forse, più che dei suoi pregi. Oltre si entra in tecnicalità non accessibili, prima di tutto al sottoscritto.

L’importanza della randomizzazione mendeliana come metodologia valida e promettente non è in discussione. Il problema è se la sua applicazione è sempre raccomandabile e se l’uso di variabili genetiche sia sempre pertinente con il risultato che si considera. L’apparente forza della RM nel confronto con le analisi epidemiologiche osservative non è sempre riscontrata. Due autori, Frost e Wald, in un articolo pubblicato sull’International Journal of Epidemiology nel 2021, mostrano con argomenti ficcanti che i fenomeni descritti dalle curve a J subiscono, nel trattamento con randomizzazione mendeliana, delle distorsioni di granularità che di fatto raddrizzano la curva, rendendo la relazione lineare. Tali distorsioni sono da imputare ad un occultamento della relazione causale soggiacente determinata dal prevalere della media di popolazione. Sentiremo spesso parlare di questo metodo e non mancheranno in futuro controversie sulla RM. Non mancherà chi la difenderà come la tecnica risolutiva di attenuazione dei confondenti, né cesseranno le voci scettiche. Quello che conta qui è mettere in evidenza la vitalità della ricerca che, per definizione, si avvicina alla realtà anche da strade diverse, ma sempre lasciando un margine alla possibilità di controprove e sentieri causali alternativi. Il caso dell’alcol non fa eccezione. Nella prossima e conclusiva puntata vedremo di trarre, alla fine di questa serie, una sintesi complessiva anche alla luce dei risultati più recenti.

EPISODIO N.6 – ALL’ORIGINE DELLA “CURVA A J” – UNA CONCLUSIONE

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In questa sesta e conclusiva puntata della serie dedicata all’origine e alla storia della cosiddetta curva a J, la relazione che spiegherebbe il beneficio cardiovascolare del bere moderato, è giusto trarre delle conclusioni e prendere una posizione sul tema in modo il più possibile chiaro e netto. Non si tratta di una volontà di scelta di campo drastica, peraltro impropria quando si tratta di cose scientifiche. Ma dopo 5 puntate in cui si è esaminato con un certo livello di dettaglio il problema, ritengo doveroso mettere da parte la prudenza delle distinzioni sottili tra pro e contro e dichiarare ciò che sembra essere un punto di arrivo, provvisorio ma non precario, prendendosene la responsabilità. Tutto ciò naturalmente in ragionevole coerenza con quanto svolto e argomentato nelle precedenti conversazioni di questa serie.
In questo podcast faremo tesoro di quanto appreso nella discussione, menzioneremo alcune recentissime novità e formuleremo un giudizio finale sulla questione.

Le numerose argomentazioni e citazioni di lavori scientifici utilizzati nella serie hanno evidenziato molte questioni di natura generale sul problema dell’attendibilità dei campioni e delle analisi statistiche in epidemiologia. L’esame degli argomenti a favore e contro, sia in rapporto alla densità e alla qualità della letteratura ha evidenziato alcuni punti che possiamo ragionevolmente ritenere “punti fermi”: è imperativo per tutte le ricerche ben condotte ridurre il bias (confondente) derivante dall’inclusione indebita degli ex-bevitori nella categoria degli astemi abitualmente utilizzata come reference point della stima; è importante ridurre per quanto possibile il bias di selezione relativo all’età; il ricorso alla Randomizzazione Mendeliana amplia la potenza dell’analisi e tuttavia essa non va considerata uno strumento passe-partout; la qualità dell’uso delle variabili strumentali richiede una teoria molto forte del nesso causale condizionato dal tratto genetico che si utilizza; e se questo nesso è debole, come appare nel caso dell’alcol, tutta l’analisi ne risente in negativo; si deve tenere conto che i livelli di consumo pro-capite utilizzati nelle metanalisi e negli studi di coorte con cui si costruiscono le stime di impatto, sono sempre derivanti da auto-dichiarazioni dei partecipanti alle indagini. Se ciò comporta – come spesso sottolineato – il rischio di livelli dichiarati inferiori a quelli effettivamente consumati (underreporting), si deve allora anche ricordare che questo dato impatta con rischi reali inferiori rispetto ai livelli ufficialmente calcolati.

Questi elementi, altri ne potrete trovare riascoltando o leggendo i podcast, hanno contribuito a rendere questo argomento meno variabile alla luce delle differenze tra studio e studio. Ciò aiuta a stabilizzare nel tempo gli esiti delle ricerche, a rendere meno pesanti le differenze inevitabili nell’impianto metodologico di ciascun lavoro. Su queste basi, e tenendo presenti gli studi che più di altri hanno marcato un reale ampliamento delle conoscenze, si può affermare senza sostanziale timore di smentita quanto segue:
esiste ed è dimostrata una forma a J della relazione che unisce consumo ed esito CV; in base a questa distribuzione i bevitori moderati presentano un esito di ridotto rischio CV (e quindi di protezione); ciò vale per i maschi e per le femmine. Tale relazione è marcata per certi esiti CV e meno per altri gli studi più recenti e con un miglior controllo dei confondenti, pur confermando l’esito a J, evidenziano una riduzione dei livelli di consumo compatibili con l’effetto protettivo. Queste quattro proposizioni sono a mio avviso la lezione da portare a casa dopo aver studiato e ponderato gli esiti dei lavori accademici sulla materia. Naturalmente si tratta di una conclusione bilanciata, che valuta almeno in parte in modo soggettivo le evidenze della letteratura esaminata. Del resto, ogni lettura di evidenze è parzialmente esposta ad una rielaborazione personale che dipende dall’esperienza del ricercatore, dai suoi interessi e quindi dalle pre-comprensioni che ognuno consciamente o meno ha e applica nell’esercizio di analisi e interpretazione dei dati. Ciò non deve sorprendere, né è di per sé negativo. Si tenga presente inoltre che i dati non sempre si presentano in bianco/nero e che perciò spetta al ricercatore che li scruta trarre un indicazione che può essere compatibile con più sentieri causali, spesso tra loro indipendenti e non convergenti.

Se qualcuno trae la conclusione che si voglia qui sostenere che “La scienza è in fondo soggettiva, solo un po’ più controllata dell’opinione grezza”, è fuori strada. Quello che si vuole dire è che il migliore dei nostri metodi per conoscere il mondo, il metodo scientifico, ha dei margini di incertezza che possono essere raffinati sia pure solo in modo tendenziale e mai definitivo. La questione può essere ritenuta interna alla cerchia degli specialisti. In parte è così. Tuttavia, l’epidemiologia ha un’ambizione forte di applicazione e controllo al campo della prevenzione delle malattie e gli epidemiologi sono chiamati dai governi a indicare soglie e limiti compatibili con il mantenimento di un buon livello di salute per le popolazioni. Non a caso le linee guida dei governi e delle autorità sanitarie sono stabiliti sulla base di protesi di consultazione che interpella o prioritariamente gli studi e il consenso interno alla comunità scientifica principalmente degli epidemiologi. Agli aspetti controversi e critici di questa questione dedichiamo l’ultima parte di questa conversazione .

Nell’estate del 2018 ha fatto rumore uno studio pubblicato su Lancet, realizzato da GBD Collaboration sull’alcol, un’analisi nell’ambito del Global Burden of Disease, la più importante collaborazione mondiale finanziata dalla Bill & Melinda Gates Foundation che studia l’impatto (burden) delle diverse cause di malattia sulla mortalità e sul carico di disabilità a livello globale. Lo studio analizza i dati di 195 Paesi attingendo, con un gigantesco sforzo, dalla letteratura i dati sulla relazione tra il consumo di alcolici alle diverse quantità e l’esito di malattia/mortalità per aree geografiche. Gli autori hanno profuso grandi sforzi per stimare, sulla base di più di 400 studi che riportano i livelli di consumo l’esito di mortalità/malattia e hanno calcolato la soglia minimizza al di sotto dell’effetto dannoso (tecnicamente il TMREL, Theoretical Minimum Exposure Level). Di fatto la curva dose-risposta che, sulla base del ricalcolo ponderato dei livelli di rischio definisce il rischio stesso.

I risultati di questo gigantesco lavoro su scala globale evidenziano per quanto riguarda l’esito di rischio complessivo una sostanziale inesistenza di effetto protettivo; detto in altre parole il livello di soglia entro cui bere non fa danni sarebbe pari a zero. Attenzione: si tratta di una dato iper-compattato che si traduce in una curva di rischio iper-generale: fatto 100% l’esito globale di mortalità/malattia, anche un solo bicchiere contribuisce (sia pure in misura minima) all’aumento di rischio. Naturalmente la disaggregazione per cause di malattia riporta le curve ai rischi relativi specifici. E anche lo studio di Lancet, perciò, restituisce in corrispondenza a basse dosi per l’esito di Ictus ischemico e diabete, soprattutto per le donne, una certa protezione. Tuttavia, si conclude, se si bilancia il vantaggio di parte dei consumi che si traduce nella curva a J con lo svantaggio associato ad altre patologie e principalmente al cancro (con il significativo contributo del tumore alla mammella), l’indicazione di salute pubblica è consumo pari a zero. Come si vede le conclusioni dal punto di vista della salute pubblica non negano l’effetto descritto dalla curva a J ma lo ridimensionano immergendolo in un ragionamento più ampio. Cosa pensarne? Come convivono queste diverse valutazioni del rischio? Sono del tutto inconciliabili? Una prevale sull’altra? Non abbiamo il tempo di entrare qui nella valutazione, decisiva nello studio di Lancet, del rischio cancro correlato derivante dai consumi di alcolici. Bisogna ricordare che un rischio di questo tipo, soprattutto per alcuni tipi di tumori, ha una componente alcol-attribuibile importante e un livello di rischio ben conosciuto soprattutto ad alta esposizione.

Nel 2022 la comunità dei ricercatori del Global Burden of Disease ha rilasciato su Lancet un nuovo lavoro della GBD Alcohol collaboratori che aggiorna l’analisi a tutto il 2020. L’articolo fin dall’inizio riconsidera con ben altra consapevolezza i modificatori della curva in rapporto all’esposizione minima compatibile con la salute . Quest’ultima dovrebbe considerare fatti influenti, oltre a quelli consueti tra cui gli stili di consumo e la componente geografica e culturale in modo più differenziato. Inoltre, il bilanciamento tra le cause di malattia e la mortalità per tutte le cause è complessa. Con queste accortezze lo studio non si limita a calcolare la soglia derivate dall’esposizione minima teorica ma viene affiancata da un confronto con il rischio associato ai non bevitori, recuperando almeno in parte il razionale che spiegava il comportamento distintivo della curva a J. Sulla scorta di un complesso ricalcolo (che rende conto in modo molto accurato del contributo dei diversi livelli di consumo per ogni patologia e per classi di età), l’esito di valutazione del rischio mostra come esso sia significativamente differenziato per età e cioè come esso impatti in modo difforme sulle classi di età inferiori (fino a 40 anni) e su quelle maggiori (fino a 65 anni e oltre). Poiché nelle coorti giovani l’incidenza degli incidenti e quella della patologie acute è maggiore, a scapito di quelle croniche come il cancro che richiedono un lungo tempo e un organismo avanti negli anni per aumentare la probabilità che si manifesti, la raccomandazione è di evitare per quanto possibile il consumo di alcol soprattutto da giovani. Anche livelli bassi possono infatti concorrere alla probabilità di eventi avversi proprio a motivo del fatto che l’alcol non avrebbe evidenti effetti protettivi. Per contro, nelle classi di popolazione più anziane (over 40) nelle quali si manifestano patologie di tipo cronico e dove l’incidenza dei disturbi CV cresce molto, un uso moderato di alcolici può contribuire alla diminuzione di questo rischio specifico.

Pensiamo che le conclusioni di questo importante contributo scientifico contengano parecchie lezioni utili. La prima, come affermano gli autori, è che nel considerare il profilo di rischio di un agente come l’alcol associato a molti esiti di salute, per lo più negativi ma in qualche misura anche protettivi, bisogna sempre considerare a livello di popolazione le prevalenze esistenti, che non sono sempre le stesse soprattutto ai diversi livelli di età, anche in funzione delle diverse condizione di salute, e di esposizione selettiva ai rischi. L’analisi conduce ad un conclusione persuasiva: i livelli di rischio per la popolazione più giovane non giustificano un uso moderato di bevande alcoliche mentre al crescere dell’età la maggiore incidenza delle patologie CV ammette un uso a basse dosi. “Ammette” significa che lo raccomanda? Probabilmente rispetto al passato il consenso attuale dei medici tende ad essere più restrittivo. Pur riscontrando i meriti della curva a J, la raccomandazione oggi prevalente è di non considerare il bere moderato un comportamento da incoraggiare per chi non beve. Il bilancio di salute complessivo, in altre parole, non riceve un significativo beneficio dall’iniziare a bere quando non si beve. E tuttavia ciò non demolisce completamente il vantaggio relativo che acquisisce chi già beve. Ovviamente tutto ciò all’interno di un intervallo di valori e considerazioni in cui l’età, e la condizione di salute dell’individuo non presentino evidenti controindicazioni al bere.

Ci sentiamo di condividere queste conclusioni. Colpisce allora che lavori scientifici come quello comparso poche settimane sul JAMA, una delle più prestigiose riviste mediche, ospiti interventi di epidemiologi blasonati che ripropongono la tesi dell’inesistenza della nozione di bere moderato e invocano politiche restrittive tout court senza prendere in considerazione alcun modificatore o mediatore del rischio come quelli che abbiamo appena menzionato. Questi autori concludono con dati non del tutto convincenti, che comprendono anche alcuni effetti coerenti con la J-curve che però sono negati nel testo, affermando poi che nel modello controllato per tutte le covariate (fully adjusted), gli effetti protettivi delle basse dosi spariscono per tutte le coorti di età. Inoltre, le donne presentano un maggior rischio degli uomini relativamente alla mortalità per tutte le cause. E concludono che gli esiti protettivi di molti studi sono sempre e solo da imputare al mancato controllo dei confondenti.

Come si vede, utilizzando solo il criterio della letteratura, è facile venir presi in un vortice di posizioni che su temi critici come quello in esame, conducono spesso al dialogo tra sordi e alle posizioni contrapposte. Si trae talvolta l’impressione frustrante che, quando si passa da dibattito puramente accademico alla formulazione di politiche sanitarie, la polarizzazione diventa politica, i ricercatori si dividano per bande e il riscontro fattuale venga adattato, quando non direttamente piegato, alla promozione di posizioni sostenibili a prescindere. In questa serie abbiamo tentato di evitare accuratamente di cascare in questa trappola. L’esame degli studi è necessario. Così come lo è il formarsi di una propria opinione su quanto si legge. La nostra conclusione è che il bere moderato ha una rappresentazione evidente in quei consumatori che sanno mantenere, in qualche modo, un equilibrio tra il piacere che innegabilmente il bere dà con la capacità di sapersi fermare. Se a 100 anni dagli studi pionieristici di Raymond Pearl ne parliamo ancora in fondo è solo per merito loro.