EPISODIO N.1 – ALL’ORIGINE DELLA “CURVA A J”: LE OSSERVAZIONI DI RAYMOND PEARL SUL BERE A BASSE DOSI
Che bere possa fare male e noto. Meglio: che bere molto possa fare male è quasi una banalità. In realtà la risposta varia molto da bevitore a bevitore: per alcuni un bicchiere è già troppo; per altri, si dice è questione di abitudine o, come si diceva una volta, “di saper reggere l’alcol”. Come in tutte le esperienze che si basano su un effetto soglia, l’esito di certi comportamenti dipende alla fine dalla capacità di gestire la situazione in prossimità della soglia, in particolare della soglia di rischio che più o meno vuol dire sapersi fermare in tempo. Chiedetelo a quel ciclista che in discesa ha calcolato male la velocità di ingresso in curva…o a quel subacqueo che ha regolato male i tempi di compensazione in fase di risalita…
Facile a dirsi, forse, non così facile a farsi. Del resto è nota l’auto-indulgenza di chi, abituato a giocare con il rischio, rintuzza chi gli obietta con scetticismo l’eccesso di fiducia nella ricerca del limite, con una frase del tipo: “beh é questione di esperienza e di abitudine, ed io mi fido della mia esperienza e so quando fermarmi”.
In materia di bevande alcoliche non è troppo diverso. L’istruzione implicita che chi beve pensa di conoscere e di applicare non sempre è ben riposta in un fondamento scientifico: l’esperienza praticata e associata alla consuetudine e magari ereditata dai proverbi degli antichi non basta. E in un‘epoca di estrema attenzione alle valutazioni errate o come è di moda dire adesso, ai bias cognitivi, è utile fare chiarezza quali siano i determinanti di rischio di alcuni comportamenti. Chiediamoci dunque: bere fa sempre male a qualsiasi dose? O esiste un effetto soglia come disi diceva all’inizio? E se c’è un effetto soglia questo è conoscibile? Ancora: l’esistenza della soglia ci mette nelle condizioni di agire in modo da cancellare o ridurre il danno potenziale? Possiamo, in altre parole gestire attivamente la riduzione di un rischio o addirittura “addomesticarlo” traendone dei benefici?
Per capirlo in rapporto alla bevande alcoliche è utile tracciare una storia che ci riporta a circa un secolo addietro ai lavori dello statistico e biometrico americano Raymond Pearl e alle origini dell’epidemiologia scientifica sul consumo di bevande alcoliche.
Se avete in mente le stampe ottocentesche che descrivono le grandi città dell’Europa e degli Stati Uniti, se avete familiarità con certi ambienti degradati descritti nei romanzi di Dickens o se vi siete immersi in certe atmosfere evocate dai Fiori del Male di Charles Baudelaire o se semplicemente avete negli occhi un classico western, converrete come nella fioritura della civiltà occidentale l’uso di alcolici segni i processi di civilizzazione, sia parte integrante del paesaggio sociale e identifichi, nella figura dell’ubriaco, un prezzo doloroso pagato dalla società all’ideale di crescita e progresso. Tuttavia il venire meno della società basata esclusivamente sull’agricoltura, l’organizzazione su base scientifica del lavoro salariato, la nascita di grandi agglomerati urbani e periferie degradate alle porte della città portano alla concentrazione di grandi masse, necessarie alla produzione industriale nascente. Grandi masse indispensabili al lavoro che però fanno anche paura. Da un lato bisogna in qualche modo lenire la durezza del lavoro: l’alcol come grande anestetico di massa; ma dall’altra si deve tutelare la riproduzione di una forza lavoro efficiente, capace di concentrarsi per il tempo necessario a svolgere mansioni magari ripetitive ma anche coordinate e sincronizzate come ci mostra magistralmente la famosa sequenza della catena di montaggio di Tempi moderni di Charlie Chaplin.
Non solo il lavoro salariato ma anche le organizzazioni statuali che nei grandi paesi formano un modo unico di inquadramento organizzato, la grande burocrazia statale e l’esercito esigono un capitale umano disciplinato, schierato in precisi dispositivi in cui l’esecuzione dei compiti è descritta da un ordine razionale e scientificamente dimensionato per ottenere certi risultati.
In questo contesto la sobrietà viene concepita come un bene sociale da tutelare: senza sobrietà non c’è responsabilità e quindi non c’è libertà. In uno dei capolavori del tardo cinema western, L’uomo che uccise Liberty Valance di John Ford, nel villaggio di provincia sulla frontiera si deve andare al voto. E il saloon è l’unico locale pubblico adatto alla bisogna. In pochi istanti compare la scritta: “IL BAR È CHIUSO”. Ma appena le operazioni di voto sono concluse, il cartello sparisce è giù grandi libagioni…
Ma poniamoci alcune domande: davvero basta un goccio per essere dannati? Il bere è sempre correlato con la dipendenza e con il disfacimento degli legami sociali? La sobrietà è sempre un ideale da perseguire? Può esservi consumo alcolico moderato, conciliabile con i doveri sociali e professionali, associato alla distrazione positiva, e perfino alla salute e al benessere?
Nei dati scientifici oggi cerchiamo una parte almeno delle risposte a queste domande. La disciplina più di altre deputate a fornire le informazioni sul grado di rischio o di beneficio di una sostanza è l’epidemiologia, cioè la disciplina che studia l’esposizione dell’organismo umano a fattori di rischio utilizzando l’unità popolazione come ambito di stima delle cause e degli effetti. L’epidemiologia lavora con grandi numeri e con tecniche che minimizzano il rumore e altri fattori di interferenza nella misura.
In materia di alcol il senso comune ha sempre riconosciuto la connessione tra eccesso del bere e disturbo di salute. Sia nelle forme organiche (ictus, infarto, cirrosi e danni al fegato), sia nelle manifestazioni comportamentali e psichiatriche (fino al delirium tremens). Ma è solo con i primi tentativi di studiare la materia con approcci epidemiologici che si è provato a capire meglio la relazione tra il bere
e gli esiti di malattia. Ed è in questa connessione che possiamo fare la conoscenza del medico di Boston Raymond Pearl. Raymond Pearl, alla metà degli anni 20 del secolo scorso sviluppa le prime indagine longitudinali su popolazioni bevitrici. Le prime indagine indagavano un campione abbastanza ristretto delle città di Boston in cui risiedeva. Egli cominciò chiedendo alle persone le quantità di alcol ingerito. Ma, mossa non scontata, decise di includere nella statistica gli astemi, (oggi diremmo come gruppo di controllo). Come variabile indipendente, Pearl provò a stimare l’esito di mortalità in relazione ai consumi di alcolici entro i 60 anni di età. Analizzando nel tempo diverse categorie di bevitori/bevitrici (M: 3086, F: 2164) egli constatò che se, come ci si poteva aspettare, il tasso di mortalità è maggiore tra chi beveva ad alta frequenza, si riscontrava anche un esito piuttosto inaspettato: gli astemi avevano un exit point di mortalità più sfavorevole sia dei bevitori occasionali sia, ancor più sorprendente, dei bevitori moderati occasionali. Tale risultato sia ripeteva uguale sia nei maschi sia nelle femmine. Poiché la causa principale di morte entro i 60 anni era di tipo cardiovascolare, Pearl dedusse dai dati che una spiegazione possibile fosse da attribuire all’uso moderato di alcol da parte di chi presentava un profilo di sopravvivenza maggiore rispetto a chi beveva di più, ma soprattutto a chi non beveva del tutto.
Pearl è dunque è tra i primi ad individuare la maggiore protezione dei bevitori occasionali moderati rispetto agli astemi. L’inclusione di questo gruppo è interessante perché arricchisce la potenziale spiegazione causale con ipotesi circa lo stato di salute di chi non beve. Ad esempio si può supporre una maggiore ansia o uno stato depressivo maggiore tra gli astemi potrebbe influenzare l’esito negativo di salute cardio-vascolare.
Pearl è dunque il primo epidemiologo che si è imbattuto nella cosiddetta forma a J (“i lunga” in italiano) per giustificare la relazione tra consumi alcolici ed esiti cardiovascolari. La ‘J’ si riferisce alla forma grafica della funzione che associa l’argomento “consumi” con il valore di “esito di mortalità”, grafico che parte in corrispondenza di un certo valore, quello del non consumo (la punta della J in basso a sinistra), per poi scendere a formare la concavità in corrispondenza dei consumi a basse dosi (consumo moderato) e poi impennarsi rapidamente verso destra (la maggiore mortalità in concomitanza con consumi eccedenti). L’andamento a J descrive appunto la relazione in corrispondenza dei punti di consumo.
La forma della curva si ha in quei fenomeni (non solo biologici) che hanno un effetto soglia: al di sopra di un certo valore la probabilità negativa aumenta mentre al di sotto, entro un certo range ben delimitato, la probabilità di malattia diminuisce. Dove ciò avviene si parla di effetto protettivo associato alla causa, in questo caso di effetto protettivo per la salute CV dei consumi moderati di alcol.
Dagli anni ’20 del ‘900 ad oggi l’esperimento è stato ripetuto innumerevoli volte in circostanze diverse e con esiti sostanzialmente confermati in popolazioni diverse per etnia, classe sociale, distribuzione delle patologie, e così via. Restavano indeterminate le ragioni della protezione dei bevitori moderati. Con il tempo e con il progredire delle ricerche si sono sviluppate ulteriori ipotesi esplicative e si è anche provato ad invalidare la curva a J. Invalidare, secondo il metodo scientifico, significa trovare delle anomalie, ovvero dei casi che non rispondono alla regola generale.
Altri studi, anche approfonditi, hanno utilizzato il metodo delle “variabili strumentali” che, con parola tecnica, viene chiamato randomizzazione mendeliana. Senza entrare in dettagli, basti sapere che se in una popolazione sono presenti tratti genetici che condizionano in mondo significativo un determinato comportamento è possibile “pesare” questa componente per ottenere curve ponderate attendibili sull’esito di malattia. Con queste tecniche il beneficio della moderazione si ridurrebbe quasi a zero. Altri lavori hanno sfidato l’ipotesi della inclusione degli astemi nel calcolo. Torneremo su questi argomenti.
Vedremo anche come altri studiosi hanno- tra cui un valente gruppo di epidemiologia italiani- hanno refutato questa conclusione con argomenti convincenti. Torneremo con particolari su tutti questi argomenti.
Congediamoci dunque dalla figura un po’ sbiadita di R. Pearl questo pioniere della biometria in un’epoca eroica della medicina con i numeri. Le foto che lo raffigurano ce lo presentano in posa “dandy” in completi ineccepibili e con uno sguardo un po’ supponente. Non stupisce che le testimonianze riportino che fosse amante della bella vita e non disdegnasse un drink quando c’era da bere. Ma questo è solo l’inizio della storia della curva a J.
EPISODIO N.2 – ALL’ORIGINE DELLA “CURVA A J”: RICERCHE E CONFERME
Nel Podcast precedente abbiamo richiamato, a grandi linee, quella che abbiamo chiamato la “curva a J”. La relazione geometrica che studia il rapporto tra un certo input o causa e un certo tipo di risposta. Nel caso specifico abbiamo visto la relazione tra il consumo a basse dosi di bevande alcoliche e la risposta in termini di salute CV. Quindi di potenziale incidenza del “bere poco” sull’esito di malattia CV per un individuo.
Abbiamo ricostruito le prime osservazioni condotte su bevitori moderati, bevitori eccedenti e non bevitori fatte negli anni ’20 del secolo scorso dal geniale bio-statistico statunitense Raymond Pearl. Pearl constatò con un certa sorpresa che l’esito di mortalità dei non bevitori pesava più di quello dei bevitori moderati. Tuttavia, la curva si impennava subito quando si passava alla statistica dei bevitori in eccesso. Tali osservazioni sono all’origine di un’ipotesi “intrigante” che dura da più di 100 anni: che, cioè, una certa dose comunque bassa di consumo di bevanda alcolica abbia un effetto protettivo sulla salute umana.
Ma cosa vuol dire confermare e consolidare un risultato scientifico? Perché non ci portiamo a casa una conoscenza e non ce la facciamo bastare una volta per tutte? E, in questo come in altri casi, c’è una rincorsa tra dubbi, negazioni, contro-deduzioni revisioni? A che serve farsi domande e investire soldi pubblici nella ricerca se il quadro finale sembra sempre più complicato piuttosto che semplificato e soddisfacente per tutti?
La risposta è che la scienza è un percorso per approssimazione, non un percorso che porta ad una conclusione definitiva. E questo lo sappiamo guardando alla storia dell’impresa scientifica: nuovi risultati possono vanificare quelli vecchi. Talvolta risultati nuovissimi riescono addirittura ad inficiare quelli nuovi riportando in auge quelli più distanti nel tempo. perciò un risultato socie tifico per quanto ben suffragato non è mai quello definitivo ed i risultati cui si perviene sono sempre aperti a revisioni e modifiche. Certe volte ciò avviene per ragioni relativamente banali: la prima versione di un esperimento cruciale può essere viziata da certe condizioni di contorno che poi si rivelano invece decisive nel riconsiderare i risultati ottenuti. Altre volte gli strumenti utilizzati per verificare un esperimento cruciale non avevano un potere di risoluzione adeguato. Verifiche successive con misure più precise o esperimenti più controllati possono perciò modificare i risultati originali. Questa è la realtà. Anche quando l’esperienza dimostra in modo piuttosto netto un risultato, esso non è mai tale da escludere che in certe condizioni si presentino anomalie e casi contrari. Bisogna accettare che il contraddittorio migliora le nostre conoscenze. e che il sapere scientifico procede più spesso a zig-zag su sentieri sconnessi, piuttosto che su strade dritte e lisce. Perciò anche i risultati meglio corroborato della ricerca, e ripetuti nel tempo, sono in un certo senso “a scadenza”. E la loro validità va rinnovata nel tempo.
In questo secondo Podcast dedicato alla curva a J e al consumo a basse dosi, cercherò di dare un qualche coerenza alla domanda: perché certe ipotesi difese da alcuni ricercatori e rese popolari dalla divulgazione appaiono anche per molto tempo controverse e discutibili.
Nei decenni successivi a Pearl i suoi test sono stati ripetuti moltissime volte. Osservazioni replicate in vari contesti a distanza anche di molto tempo. Nel secondo dopoguerra si constatò, almeno in ambito occidentale, una ripresa marcata dell’incidentalità cardio-vascolare nella popolazione, un aumento se si vuole delle malattie cardiache. Ciò veniva imputato in primo luogo alle abitudini alimentari. L’imputato principale, allora come oggi, era la presenza di grassi nell’alimentazione, un fattore associato alla riprese del benessere e all’alimentazione molto più ricca e variegata rispetto alle ristrettezze cui erano stati costretti gli Europei in tempo di guerra. Allora l’incidenza delle malattie CV aveva subito un netto arretramento. Abbastanza precocemente si noto però che alcune popolazioni la cui dieta era fortemente caratterizzata dalla presenza di grassi di origine animale aveva esiti di mortalità e di incidenza di malattie CV non comparabile ad altre. In altre parole, a parità di profilo dietetico non si presentavano gli effetti negativi. I Francesi in particolare mostravano questa anomalia che è passata ormai alla storia come “The French Paradox”, il paradosso francese. In assenza di una caratterizzazione precisa dei motivi che conducevano a questa anomalia, medici ed epidemiologi hanno cercato nello stile di vita una plausibile spiegazione delle differenze di esito di malattia e di mortalità. Un sospetto già presente fin del XIX sec. imputava ai consumi di alcolici, e segnatamente del consumo di vino ai pasti un tratto distintivo del consumo alimentare francese rispetto a quello dei paesi anglosassoni. Un consumo regolare e abituale di vino rosso poteva esercitare un’azione efficace e protettiva dal rischio cardio-vascolare? Naturalmente serve e oltre l’ipotesi un riscontro casuale sui motivi di una certa associazione.
Tra gli anni ’60 e ’70 del Novecento gli epidemiologi hanno ripreso il tema ed hanno cercato di testare l’ipotesi con tecniche statistiche capaci di mettere meglio a fuoco le osservazioni condotte sui campioni. Studi ripetuti, anche diversi per impostazione (studi osservativi, studi prospettivi, studi longitudinali metanalisi), condotti a diverse latitudini e in diverse culture, hanno evidenziato con un grado di coerenza la conferma della minore incidenza. Uno studio del 2000, più di 20 anni fa, evidenziava già come il bere a basse dosi correlasse con esiti inferiori di mortalità CV in ricerche condotte in tutto il mondo, tra cui: Italia, Giappone, Australia, Finlandia, Scozia, Svezia, Nuova Zelanda, Stati Uniti E altre ancora. Ma in ultima analisi queste conferme come si devono valutare? In che senso sono definitive o risolutive? Entriamo qui nella zona segreta o se volete più nascosta del ragionamento scientifico; quella parte dell’argomentazione che difficilmente trova sponda negli articoli dei giornali o nella vulgata che si crea su un argomento, Soprattutto, se questo riguarda la salute. Un primo modo di validare certe associazioni è quello di validare certe semplici relazioni logiche. Ad esempio, la relazione inversa a quella studiata: ad esempio se sembra che il bere a basse dosi protegga da certe malattie cosa succede se studiamo le alte dosi? Ad esempio, si constata facilmente che a dosi crescenti di assunzione di bevande alcoliche aumenta la pressione arteriosa. E correlativamente essa diminuisce se si ritorna a bere poco. Se un potenziale meccanismo funziona bene nelle due direzioni, c’è una forte probabilità che esso abbia u ruolo causale. Analogamente ci sono dei marcatori biologici che vanno nella direzione della conferma o rispettivamente della smentita di certe associazioni. Ad esempio, si è visto con studi metà degli anni 70 che i bevitori moderati hanno un livello più alto di HDL, lipoproteina colesterolo ad alta densità che spiega almeno parzialmente una riduzione dell’aterosclerosi e del rischio di malattia coronarica. E si è visto anche che la concentrazione della lipoproteina nel plasma è diversa in funzione del diverso livello di consumo di alcolici. Le conferme nel tempo di questi risultati epidemiologici rafforzano l’azione dei meccanismi biologici proposti dagli specialisti a livello di microbiologico fisiologico ed oggi anche a livello genetico e molecolare. Tutte queste attività sono poi state testate in parallelo nel lavoro clinico, quello condotto fianco a fianco dei pazienti che produce evidenze insieme sulla ricerca farmacologica portano a regime determinati risultati li trasformano in protocolli terapeutici standard. Prendere atto di questa inevitabile complessità testimonia di come un’intuizione primo risultato innovativo per quanto brillante e geniale, richiede molto lavoro successivo.
Non basta però che queste associazioni si presentino più volte: oltre a confermare bisogna anche escludere. Gli studi, per conferire ad un’associazione un potere esplicativo tendenzialmente causale, devono essere anche controllati per la presenza di eventuali confondenti. I confondenti sono fattori più o meno noti che possono causare interferenza nell’inferenza da una causa potenziale ad un effetto. In ogni caso studi caso controllo e studi prospettici ben condotti, hanno confermato molte volte la riduzione di eventi coronarici per i bevitori moderati. La conferma statistica è data dalla coerenza della relazione tra diversi livelli di consumo e danno cardio-vascolare descritti dalla forma delle curve a ‘J’ o a ‘U’. Ciò vale per un buon numero di patologie CV anche se non tutti gli effetti CV vascolari hanno la stessa forma. Queste differenze non sono sottigliezze. Spesso i ricercatori si trovano nella situazione di dover trarre ispirazione da casi precedenti, ma elaborando casi nuovi sono costretti a verificare fatti inediti. Questo è un compito faticoso che esige precisione ed un atteggiamento umile che diffida dalle generalizzazioni confortanti. E che considera sempre l’anomalia che, se poco plausibile, come la spia di un potenziale meccanismo causale alternativo che deve essere testato empiricamente e non trascurato a priori. Per cui in un certo senso il ricercatore scrupoloso dovrebbe sempre accettare di dover ricominciare da capo se vi sono indicazioni in quel senso. Nella lunga tradizione di ricerche epidemiologiche una persuasione prevalente convive sempre con vari dubbi, più o meno forti. Il caso delle bevande alcoliche e degli effetti sulla salute cardiaca appartiene senz’altro a quest’ambito. Parte della ragione attiene senz’altro a ragioni di tipo socio-culturale. Oltre alla persuasione su benefici di certi comportamenti che talvolta sfiora anche i ricercatori in quanto individui umani calati in un certo clima sociale e culturale, le osservazioni danno talvolta esiti confermativi non definitivi che però in un certo contesto possono apparire molto convincenti. Ad esempio. gli studi ecologici, cioè studi di popolazioni condotti su popolazioni condotti anche su grandi numeri in ambienti relativamente omogenei sotto il profilo delle abitudini e forse anche sotto il profilo dii una certa omogeneità genetica, tendono a confermare certi risultati. il paradosso francese che abbiamo menzionato è forse almeno in parte condizionato sa fattori ambientali che è possibile che “spieghino troppo”. In questo casi è bene essere molto scrupolosi nell’analisi dei confondenti che si rischiano di trascurare per. un eccesso di fiducia nel meccanismo esplicativo che appare più ovvio. Un altro aspetto che si deve considerare sempre è la capacitò dello studio considerato di classificare con precisione e coerenza: (i) la nozione di persona che beve, rispetto a quella che non beve (o che non beve più). (ii) L’espressione corretta e coerente delle quantità bevute utilizzate nell’analisi. Queste condizioni che sembrano elementari, spesso sono trattate in modi molti difformi nei diversi studi e concorrono a rendere le comparazioni difficili e talvolta impossibili. Ciò riporta a concludere con due osservazioni: la prima che ogni studio, anche il meglio condotto, si basa su una ragionevole compensazione e compromesso tra diverse informazioni. Non è possibile convogliare in un unico studio troppe informazioni senza perdersi. Questo in parte spiega perché anche studi molto brillanti e ben riusciti richiedono sempre di controllati e testati con ripetizioni, con altri studi che tendenzialmente dovrebbero correggere i limiti di altri studi precedenti. La seconda osservazione è che non è sempre possibile limitare il ruolo dei confondenti e limitarne quindi l’influenza diretta o indiretta. Ogni risultato va perciò bilanciato alla luce dei punti di forza e dei punti di debolezza del metodo e delle possibilità che ogni lavoro presenta.
Su questi aspetti cercheremo di gettare un po’ di luce nel prossimo podcast dedicato appunto a questi aspetti critici.